Canzone Italiana (notare il maiuscolo) e jazz? ‘Vexata quaestio’, come direbbero quelli della Legge. Ma l’Impolitico non resiste alla tentazione di infilarcisi, soprattutto ora che è ormai archiviata la rasserenante tregua natalizia, trascorsa amenamente in coda per un tampone e nella trepida speranza che i Re Magi ci portassero qualche confezione di FFP2, la mirra ed altre sostanze psicotrope evidentemente essendo già state recapitate a chi ne ha decretato l’obbligatorietà l’antivigilia di Natale, evidentemente pensando che se ne sarebbero trovate a milioni sotto l’Albero.
L’articolo del collega Andbar offriva spunto troppo ghiotto, anche se qui si prescinderà in gran parte dall’avventura statunitense della Vanoni. Ed ecco la solita manciata di considerazioni ‘controvento’, buona occasione anche per inframezzarci un po’ di musica (cliccate mi raccomando, le clips sono parte integrante del testo).

La tormentata relazione (?!?) ha origini remote, che risalgono alla fine degli anni ’40, cioè alla stessa nascita della Canzone Italiana come prodotto industriale di quell’autentica ‘fabbrica culturale’ che fu il Festival di Sanremo. Una acuta (e documentata) storica americana – Anna Harwell Celenza – nel suo pregevole ‘Jazz all’Italiana’ ha notato che quest’apparentemente frivola manifestazione canora venne da subito posta sotto la diretta e personale responsabilità del direttore generale della neonata RAI. Il motivo di tanta enfasi, apparentemente spropositata: semplice, sradicare con la massima efficacia e capillarità la diffusione e l’influsso sul costume delle ‘musiche americane’, esplose certo con i V-Disc dilagati al seguito delle truppe alleate durante la guerra, ma già carsicamente diffuse negli anni ’30 e ’40 (anche se prevalentemente in ambienti giovanili altoborghesi). Questo indirizzo risulta esplicitamente formulato nero su bianco in appositi documenti d’indirizzo destinati all’ente radiofonico, redatti a firma di esponenti di rilievo del mondo musicale italiano.

Quindi non solo distanza ed estraneità, ma addirittura antitesi genetica tra il mondo della nascente Canzone Italiana e le sparse conventicole jazzistiche. Tuttavia, con il trascorrere degli anni qualche fuggevole incontro ed intersezione c’è stato: a giocare a favore era l’incombere del Mito Americano, sempre più forte man mano che il Paese usciva da un interminabile dopoguerra che si poté ritenere archiviato solo alla fine degli anni ’50. Poi c’era la prossimità indotta dalla frequentazione di locali notturni, dancing et similia, che accomunava sia il mondo della musica leggera che quello del jazz. Senza contare che in studio di registrazione la versatilità ed il mestiere dei jazzisti tornavano quanto mai utili quando si trattava di confezionare un prodotto altamente rifinito e con un tocco di raffinatezza al di sopra della media.

E ciò per tacere delle migrazioni dai ranghi delle jazzband alle ribalte canzonettistiche. Ma si trattò quasi sempre di rapporti a senso unico, in cui solo da una parte si prendeva……e non era certo il jazz, eterno parente povero da tener lontano dal salotto buono. Parente povero con cui però si contrassero molti debiti, che in seguito non furono non solo mai onorati, ma nemmeno riconosciuti.
La prova del nove di questo discorso è data dal contributo virtualmente nullo del repertorio della musica leggera italiana al corpus degli standard jazzistici: l’unica, splendida eccezione è rappresentata da ‘Estate’ di Bruno Martino, che, anche a prescindere dalla famosa versione di Michel Petrucciani, ho visto proporre tante volte da jazzmen americani dell’estrazione più diversa, ma sempre accomunati da raffinata musicalità.
Altri ‘flirt’ passeggeri furono quelli delle grandi interpreti, e qui torniamo appunto alla Vanoni. Alla quale bisogna riconoscere un notevole coraggio: cioè quello di andare a ‘giocare fuori casa’, mettendosi a confronto con personaggi del music business di rilievo planetario come Herbie Hancock e George Benson, che all’epoca (metà anni ’80) erano tra l’altro all’apice del loro successo. E qui i rapporti di forza erano palesemente rovesciati a sfavore della nostra diva, che probabilmente cercava di fare esperienza nel campo dell’elettronica musicale (allora ancora agli albori), attingendo all’esperienza di chi meglio la conosceva (non dimentichiamo che Hancock è un’ingegnere elettronico mancato, mentre sua sorella fece una notevolissima carriera in IBM). Una manifestazione di notevole saggezza e curiosità, ma del resto con la Vanoni e Mina Mazzini eravamo non ai piani alti della musica leggera italiana, ma addirittura nell’attico. Era purtroppo archiviata, quella delle Grandi Intepreti e delle loro curiosità.
Dopo è stato il momento dei cantautori, la cui formula basata sulla centralità del testo e del suo autore-interprete non poteva certo lasciare spazio ad un ospite ingombrante e tendenzialmente imprevedibile come il jazzman. I rapporti con l’area del rock progressivo meriterebbero discorso a parte, ma anche questo mondo è stato rapidamente messo da parte nel paesaggio musicale quotidiano italiano, sia pure dopo una breve stagione di fulgore.
Dagli anni ’90 in poi, la divaricazione con il filone principale della musicale leggera italiana si è fatto a mio avviso ancora più ampia ed irreversibile: e questo anche a causa di incompatibilità linguistiche e metriche. L’italiano degli ultimi decenni è sempre più appesantito da incrostazioni gergali e burocratiche, tutt’altra cosa rispetto a quello più sobrio ed essenziale maneggiato dai parolieri anni ’60. Aggiungiamoci poi una cronica tendenza all’enfasi patetica e maldigeriti modelli presi a prestito dall’estero, e per me il discorso è chiuso sine die. Ovviamente si parla del piano artistico e creativo: quello del c.d. ‘mercato’ è ovviamente altra cosa, ma anche qui il jazz nostrano rimane più che mai ‘parente povero’. Cosa che tra l’altro dovrebbe consigliare ai nostri jazzmen molta cautela nel difendere gli striminziti spazi loro propri, prima di invitarvi ospiti ingombranti destinati a partire l’indomani senza lasciare recapito.
‘My five cents’, come sempre. Ma considerati gli anni precari e grami che già da tempo la nostra musica ha sulle spalle, sono considerazioni che mi stanno molto a cuore. Benvenute obiezioni, osservazioni e querelles. Milton56
A momenti mi dimenticavo dei crooners, e proprio di lui, Bruno Martino. Ecco un ‘live’ televisivo degli anni ’70, notare cosa fa con una mano sola sulla tastiera. Chissà se avrebbe passato se le selezioni di qualche Vattelapesca-Factor… 😉
Non vedo motivi di scontro e, alla fine, che importa se la “grande canzone italiana” rappresentata dal carrozzone mediatico sanremese non ha rapporti con il jazz.
Peraltro il “sanremese” medio, a proposito del jazz, riserva opinioni mediamente negative tra il “non ci capisco nulla con tutte quelle note” e poi “a me piace la melodia” e cita, spesso a sproposito la nobile ascendenza dalla canzone napoletan,a con il solito repertorio da cartolina per turisti stranieri.
Per parte mia, sono più interessanti le incursioni di Lucio Dalla, Pino Daniele, Concato in materia. In tema di signore, tralasciando la Vanoni verso la quale, con l’eccezione del famoso album con due noti illustri esponenti della canzone e della poesia brasiliana, provo istintiva freddezza e la “plasticosa” Giorgia con l’arruffianata hancockiana, l’operazione più interessante l’ha fatta Mia Martini nei suoi purtroppo brevi anni Novanta con Maurizio Gianmarco dove mescolava sapientemente canzone italiana e standard d’oltreoceano.
L’ho anche sentita dal vivo con un pianista nel ’93 con un repertorio misto e ne conservo un piacevole ricordo.
Meno entusiasta invece di Ghiglioni alle prese con Tenco. Il vestito è troppo intimista e, parere personale, preferisco sentire l’originale che emana una poesia unica e irripetibile.
Quanto a Martino, per fortuna sua, è vissuto in un’altra epoca e si è risparmiato X Factor…
"Mi piace"Piace a 1 persona