CARTOLINE – MANTOVA, SYLVIE COURVOISIER & MARY HALVORSON DUO

Mantova è da tempo culla di intensa attività jazzistica, tra l’altro con notevole apertura internazionale. All’ Associazione 4.33 si devono molte proposte stimolanti e non convenzionali: nei prossimi mesi si annunziano parecchie interessanti occasioni di ascolto, ancora in corso di segnalazione su sito per comprensibile cautela, dati i tempi. Attraverso quest’ineccepibile serietà è filtrata però qualche anticipazione, da confermare ufficialmente: si parla di Emmett Cohen con la vocalist Samara Joy (di cui si dice gran bene), di un duo con il redivivo Greg Osby, il quartetto di Immanuel Wilkins ed una formazione tutta al femminile capitanata dalla pianista Myra Melford.

Il duo Sylvie Courvoisier al piano e Mary Halvorson alla chitarra è stata l’ideale ouverture di questa stimolante stagione. In questi ultimi due anni abbiamo assistito al nascere di un genere che definirei ‘musica della pandemia’: importante il suo valore di testimonianza di resistenza, tuttavia man mano che si allontanano i momenti di maggiore tensione e drammaticità c’è da augurarsi in tutta franchezza che buona parte di questi volenterosi abbozzi, di queste sedute di studio in pubblico, quasi sempre avvenute in contesti di isolamento e con mezzi sommari a disposizione, vengano dovutamente archiviate come documenti di un momento eccezionale, e che i relativi autori si dedichino a cose più meditate e rifinite.

‘The Disappearing Hour’, l’album

Non è il caso di ‘The Disappearing Hour’ del duo Courvoisier/Halvorson, che palesemente affonda le sue radici in una riflessione ed in una elaborazione approfondite. Oltre all’album omonimo uscito da Pyroclastic nel 2021, sono lì a testimoniarlo i molti fogli di musica che le due sfogliano durante il set, spesso consultandosi con rapidi gesti d’intesa. Sì, perché ci troviamo di fronte a materiali fondati in parte notevole su di un lavoro di scrittura.

Halvorson in un bello scatto di Rocco De Lillo

La formula piano – chitarra non è certo facile, men che mai se riproposta nella dimensione live: bisogna far i conti con la preponderanza dei volumi e dei timbri del pianoforte, che in situazione normale tenderebbero a prevaricare la chitarra, specie se si tratta di una semplice hollow body moderatamente amplificata come quella impiegata da Halvorson nell’occasione. Ma le nostre due fanno chiaramente eccezione: da una parte Halvorson è in grado di creare ampii fondali tali da imprimere il tono e l’atmosfera di interi brani, e questo con un utilizzo quantomai parco di effetti. Le sue frasi duttili e punteggiate da repentine torsioni generano un effetto di vertigine e imprevedibilità che le consentono di contendere la scena al piano.

Courvoisier risponde ad Halvorson con le ‘sue’ corde…sempre l’obiettivo di Rocco De Lillo.

Dall’altra parte Courvoisier – in cui riemergono tracce di un’intensa frequentazione delle esperienze della musica di ricerca europea – spesso punta ad un’inversione dei ruoli con la chitarra, spingendo il suo strumento ad abbandonare le sue valenze percussive (pur largamente sfruttate nell’occasione), andando ad invadere il regno delle corde con frequenti ed abili sollecitazioni dirette delle proprie, che sortiscono risultati sonori talmente originali da far sospettare la presenza di qualche device elettronico che in realtà non si vede.

Il risultato è una musica nervosa e contrastata, percorsa da ondate di ansia e di inquietudine, ma che conosce anche improvvisi ed inattesi squarci di melanconico ed abbandonato lirismo. Il materiale tematico è molto ben caratterizzato e sviluppato, e molti dei suoi spunti fanno decisamente breccia nella memoria dell’ascoltatore, anche di quello con minor consuetudine con gli ambiti di ricerca da cui provengono le due musiciste. I repentini mutamenti di clima sonoro e tempi evocano efficacemente l’ottovolante emotivo e lo straniamento a cui siamo stati esposti in questi due anni: tra l’altro il duo si è tenuto piuttosto lontano da scontati stilemi minimalisti cui altri avrebbero fatto largo ricorso, considerata l’ispirazione di fondo del lavoro.

‘La proporzione aurea’….. forse una venatura d’ironia?

L’affiatamento e l’affinità delle due è evidente: nonostante la forte strutturazione della musica che emerge in modo chiaro dall’album registrato in studio, la sua riproposizione dal vivo avviene in modo del tutto fluido anche se probabilmente quella mantovana è stata una delle prime occasioni live del duo. E questa tenuta si riflette anche nei vari momenti d’improvvisazione radicale che punteggiano il programma, in cui risultano armonicamente inseriti senza alcun accenno di gratuità. Molto ha contribuito l’atmosfera rilassata creatasi in una sala affollata da un pubblico curioso e non occasionale, evidentemente cresciuto negli anni grazie a molte occasioni di ascolto non convenzionale.

Altra copertina originale…….

Considerato che Courvoisier & Halvorson hanno già alle spalle l’esperienza di ‘Crop Circles’ del 2017, quest’ulteriore lavoro che ha superato brillantemente la prova del palco crea l’attesa per altri frutti del duo, che rappresenta l’incrocio di due itinerari musicali estremamente eterogenei, in altri tempi li si sarebbe definiti pressoché antitetici: Courvoisier formata nei conservatori svizzeri, Halvorson partita con il mito del rock (‘volevo diventare Jimi Hendrix’, ha confessato anni fa in un’intervista) e poi approdata al laboratorio di Anthony Braxton. Due strade diverse, ma giunte entrambe alla casa comune di un jazz audace e nello stesso tempo intensamente comunicativo, che vorremmo  sentire più spesso. Milton56

Ed ecco a voi la sottile adrenalina di ‘Bent Yellow’…..

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