(foto Fabio Gamba, per gentile concessione Bergamo Jazz Festival)
Da estimatore di vecchia data di Iyer sono rimasto alquanto sorpreso dal vedere che a brevissima distanza da un exploit come quello di ‘Uneasy’ (a mio avviso disco destinato a durare come una pietra miliare nonostante una produzione non ‘trasparente’) il nostro si presentava a Bergamo con un trio non solo completamente rinnovato rispetto a quello dell’album, ma anche composto da musicisti di estrazione piuttosto distante come il bassista Matt Brewer e soprattutto il batterista Jeremy Dutton.
Il fotogramma sfuggente. Ma dimenticavo che Vijay è musicista in inarrestabile evoluzione, ogni suo concerto è solo una sorta di ‘fermo immagine’ di una sequenza. A novembre mi ero sobbarcato una trasferta in una Roma uggiosa per ascoltare finalmente dal vivo il combo con Linda May Han Ho e Tyshawn Sorey, ricavandone una certa perplessità con conseguente sospensione del giudizio. L’unica conferma era quella del sospetto che il trio dal vivo avesse un volto ed un potenziale ben diverso da quello rivelato dal disco. Questa occasione di Bergamo è stata ancora diversa da quella romana: non è stata solo questione di organico, ma soprattutto del modo di proporre ed elaborare un corpus di temi – quelli di ‘Uneasy’ – che sembra avviarsi a diventare un book personale da cui attingere ulteriormente nel tempo a venire, una sorta di pietra di paragone dei differenti sentimenti del tempo di un musicista così sensibile su questo versante come il pianista newyorkese.
Oltranza. Iyer è sempre uomo dell’intensità, della spinta e del movimento in avanti, identità confermata anche da questo concerto bergamasco. Il trio con Brewer e Dutton mi è però apparso più equilibrato di quello visto a Roma con Linda May Han Ho e Tishawn Sorey, che nell’occasione apparve percorso da squilibri e tensioni interne generate da un eccessivo protagonismo – quasi prevaricatorio – del batterista.
Un book tutto personale. A Bergamo ha avuto modo di spiegarsi appieno la tendenza di Iyer a dilatare gli spazi e le trame dei densi temi di ‘Uneasy’, le cui esposizioni e riprese tendono a diventare la cornice di lunghissime e travolgenti improvvisazioni. Il solismo di Iyer è qui parso meno tagliente ed aggressivo rispetto all’occasione romana, senza perciò perdere in dinamismo e proiezione in avanti, tutt’altro: anzi, io ho percepito una lucidità ed una determinazione ancora più affinate. Lo sguardo è sempre fisso su di un orizzonte lontano, attraversato da segnali enigmatici.

Segnali nella tempesta. Le apparizioni dei temi di Uneasy mi hanno ricordato le ‘balise’, rudimentali ed enigmatici segnali che punteggiano a distanza le piste sahariane, veri totem che sembrano interrogare più che illuminare il viaggiatore. Soprattutto quando ci si trova in mezzo all’autentica, inarrestabile tempesta scatenata dal pianista-leader a Bergamo. Ideale in questo contesto il ricorso al dinamicissimo ‘Drummer’s song’ dell’indimenticabile Geri Allen, ma persino l’inquietante premonizione di ‘Augury’ e l’amara elegia di ‘Children of Flint’ si sono trasfigurati amalgamandosi perfettamente alle ondate della marea generata dal trio.
Dialogo equilibrato. In questa irriducibile oltranza Iyer risulta ben assecondato dai partner: Matt Brewer al basso è senz’altro più determinato, deciso e dalla consistenza sonora più massiccia della May Han Ho, più funzionale alle assorte ed inquiete atmosfere dell’album. Jeremy Dutton (brillanti trascorsi nel milieu di Joel Ross) risulta inserito in modo più equilibrato nella delicata struttura del trio e, pur non perdendo nulla dell’assertività e potenza evidentemente richieste dal leader, si è rivelato più capace di sfumature e di accenti calibrati rispetto alla scansione quasi brutale ed appoggiata ad un set di batteria minimale imposta da Sorey a Roma all’intero gruppo: a Bergamo ne ha guadagnato il dialogo interno alla band.
La tempesta passa oltre. Al termine di oltre 90 minuti di una sorta di suite in cui Iyer ha montato in modo serrato i suoi pezzi senza significative pause od allentamenti di tensione, mi è sembrato di cogliere una reazione del pubblico un poco intimidita, una sorta di successo di stima un poco al di sotto di una performance veramente travolgente: certo la sua struttura ha lasciato spazi rari e minimi al manifestarsi delle reazioni della platea, cui però è forse mancata un po’ la capacità di abbandonarsi emotivamente ad una ‘musica dell’intensità’ cui si è forse disabituati da molti anni (e questo vale anche per molte delle ‘teste grige’ della mia generazione). Anche dalle file dei ‘regolari’ vicino a me ho orecchiato un ‘estenuante’: sarà, ma molto meglio ‘estenuante’ che ‘estenuato’, l’estenuazione ha fatto il suo tempo soprattutto nei nei nostri giorni, che la musica di Vijay racconta veramente e pienamente. Inutile cercarci un rifugio, è davvero la ‘musica dell’inquietudine’. Milton56
Post scriptum: gli ‘occhielli’ in corsivo all’inizio dei paragrafi sono una sorta di ‘parole chiave’ idonee a creare il confronto con la performance di Brad Mehldau. Prossimamente su questi schermi…….