Dal vostro infiltrato speciale ad Orvieto
Anche quest’anno mi sono concesso l’appuntamento con Umbria Jazz Winter, mi verrebbe da dire che ormai si tratta della ‘vera’ Umbria Jazz, ma in spirito natalizio mettiamo tra parentesi le polemiche. L’edizione 2022 è risultata un po’ ridotta per questioni di mancati contributi. Tuttavia non si è rinunziato alla formula tradizionale della riproposizione dei gruppi invitati in più date, alle puntate esplorative in terreni vergini (quest’anno Kris Davis), allo sguardo sul giovane jazz italiano ed infine alle ‘musiche intorno’. Purtroppo si sono sensibilmente ridotti l’ampia interazione e l’intreccio tra le varie band presenti che ha caratterizzato le ultime edizioni, anche a causa della riduzione a due delle locations disponibili (il Teatro Mancinelli ed il suggestivo Salone dei 400 del Palazzo del Popolo, purtroppo sono venuti meno i più raccolti spazi del chiostro del Palazzo dei Sette e del Museo Emidio Greco).
Comunque il grande festival mainstream ha tenuto botta, aprendo una preziosa finestra sulla scena americana ed anche offrendo una bella occasione ad una nutrita pattuglia di ‘young cats’ italiani. Ma veniamo alle cronache.

Uno dei dischi più amati da Charles, che dopo anni problematici potè finalmente radunare una vera ‘dream band’: impossibile non averlo, insieme con il gemello ‘Changes Two’
Mingus Centennial Band. Bell’ibrido tra americani veterani delle formazioni orchestrali che perpetuano l’eredità del Mingus compositore, e nostri musicisti con lunga esperienza di collaborazione con solisti di oltreoceano (soprattutto il valoroso Piero Odorici, da anni il partner di fiducia di George Cables nelle sue frequenti trasferte italiane). Indovinata anche la formula del sestetto, cara all’uomo di Nogales: il pensiero fatalmente corre a quello degli indimenticabili ‘Changes One’ e ‘Changes Two’. Di questi tempi il sestetto è formazione di una certa complessità, e metterlo in campo senza un significativo affiatamento preventivo è una bella sfida: direi che sul piano della coesione e dell’armonia di gruppo la scommessa è stata vinta, soprattutto nell’ultima serata dell’1 gennaio, la quinta data della band (Umbria Jazz Winter li fa sgobbare i suoi musicisti…..).
Ci si è trovati di fronte ad un bel gruppo di hard bop avanzato, dove il momento solistico prevaleva sulle parti di assieme, sostanzialmente limitate alle enunciazioni tematiche iniziali e finali: e questo è certo un primo scarto rispetto al mondo mingusiano, ma forse non poteva esser diversamente, il jazz è anche governato dalle situazioni concrete in cui può esprimersi. Sia nei brani originali (molto in evidenza quello del bassista Boris Kozlov, anima della Mingus Big Band) che nei classici mingusiani (in evidenza ‘Orange was the Color of her dress..’ ed un non scontato ‘East Coasting’) si sono ascoltati assoli molto pregevoli: senza sciovinismo metterei in prima fila quelli di Odorici, fluido e discorsivo, con una pronunzia contenuta ed elegante. Più aggressivo ed irruente Alex Spiagin alla tromba ed al flicorno, competente e misurato Roberto Rossi al trombone. Alla fine il più ‘mingusiano’ di tutti si è rivelato David Kikoski, con il suo pianismo dinamicissimo e spumeggiante, apprezzato anche a Ferrara a dicembre in trio: è probabile che abbia prestato al sestetto la sua mano di arrangiatore, già esercitata con la Mingus Dinasty.
Alla fine ne è risultata una lettura elegante e levigata delle musiche mingusiane, lontana però dai suoi esibiti conflitti, dalla sua feroce dolcezza e dalla sua inquieta sensualità. Ma Mingus è ormai assurto post mortem al sospirato status di autore di classici del jazz moderno: e si sa, questi sono destinati a diventare creature autonome, capaci di correre su strade lontane e diverse da quelle che l’autore aveva immaginato per loro. E’ il prezzo della classicità, alla fine…
I Centennial al Palazzo del Popolo, forse è il primo set, quello del 28 dicembre a mezzanotte….
Romero Lubambo, chitarra solo.
Il chitarrista brasiliano (ma ormai americano d’adozione da oltre 30 anni) è ospite ricorrente del festival di Orvieto, in combinazioni sempre diverse. Stavolta ha avuto l’occasione di un’esibizione in solo, dopo il set orchestrale con Dianne Reeves che lo ha fortemente voluto con sé. I soliti ‘quattro lettori’ di lunga data sanno bene quanto io sia impermeabile al ‘divismo chitarristico’: se vi dico che appena scorso il programma mi sono buttato a pesce nell’acquisto del biglietto per lui, capirete che stiamo parlando di un musicista a tutto tondo, uno ‘in a class of its own’. E’ vecchia tradizione dei festival umbri dedicare una finestra alla musica brasiliana, così snobbata alle nostre latitudini persino dalla piccola tribù del jazz. Quello brasiliano è un vero continente musicale, i cui complessi ed intensi rapporti con l’universo afroamericano non si esauriscono certo nel jazz samba di Stan Getz o di Charlie Byrd, ma proseguono intensi sino a coinvolgere un musicista come Rob Mazurek, per esempio.

Ma ritorniamo all’uomo solo sul palco con la sua chitarra, rigorosamente acustica: un bello strumento elettrico farà solo un fugace apparizione, come si dirà poi. Come presentare Lubambo? Tempo fa un simpatico chef di YouTube introdusse una ricetta romanesca con questo monito: “Vegans, don’t try this at home”. Mi verrebbe da dire la stessa cosa ai chitarristi amatoriali che si accingessero ad ascoltare un suo concerto. La sua tecnica e padronanza strumentali sono semplicemente sbalorditive, ma gli si farebbe un torto nel definirlo un grande virtuoso, etichetta quasi sempre limitativa del vero musicista. E Lubambo viceversa lo è, e pure grande. La ricca e sfumata tavolozza di colori, i complessi accordi risolti con irrisoria facilità, il fraseggio aereo e dinamico sempre pronto a fulminei cambi di passo sono al servizio di un mondo musicale molto ricco e vario. Ovviamente sono in primo piano i classici della bossa nova, da Antonio Carlos Jobim a Chico Barque de Hollanda, ma riproposti e riplasmati con una capacità improvvisativa che consente a Romero di dilatarli in un ampie elaborazioni che non conoscono alcun momento di noia o stanchezza per l’ascoltatore, anzi….
Ma Lubambo è anche una bella ‘penna’ come testimoniano i suoi ‘Lukinha’ (dedicato alla figlia più piccola Luisa) e soprattutto questo ‘Pro Flavio’: “Io sono cresciuto a Rio, nel sud est del paese. Mio padre (uomo straordinario) invece veniva da Recife, nel Nordeste…. E lì i ritmi sono molto diversi…. “. Eccoli:
Alla fine di questo volo, Lubambo si china sulle chiavi dello strumento. “Sapete, i chitarristi passano metà del tempo ad accordare lo strumento. L’altra metà a suonare una chitarra stonata…” (sic!). Questa ironica sentenza dà un’idea dell’understatement del personaggio (altro che divismo..) e del clima caldo e rilassato del set. Sfociato poi nell’apparizione della cantante Pamela Driggs. Romero: “Venticinque anni fa mi ha ingaggiato per la registrazione di un suo disco. Ha una bella voce. La scrittura dura ancora…..”. Mrs.Lubambo replica subito da par suo, e con voce soave e sorniona: “Abbiamo fatto un lungo viaggio, siamo partiti da San Francisco, abbiamo preso due aerei, portandoci dietro DUE chitarre….”. Romero incassa la provocazione coniugale ed imbraccia finalmente la chitarra elettrica che languiva da più di un’ora su uno stand: i coniugi Lubambo si lanciano quindi in un fulminante e sulfurueo blues puro e duro, mi sembra “What makes me treat you the way I do”. Segue un ‘Love for sale’ , interpretato con molto spirito e bella voce limpida da Pamela. E con questa spiritosa jam session matrimoniale si chiude un pomeriggio di gran bella musica. Che dire del pubblico? Allo spegnersi dell’ultima nota era già ressa intorno al banchetto, in un paio di minuti i cd disponibili sono spariti tutti….
Stay tuned, c’è dell’altro ….. Milton56
…e dopo il padre, non facciamo torto alla figlia, la piccola Luisa….
Sempre grata.
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Figurati, io mi diverto a fare il ‘turista della musica’, in un posto splendido come Orvieto, poi…., sai che sacrificio ;-). Comunque il meglio deve ancora venire…. stay tuned… Milton56
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Ok 🙂
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