L’UOMO DELLE IDEE

Come ben sanno i ‘quattro lettori’ che ci seguono da tempo, io sono allergico al marmo, agli ispirati ‘coccodrilli’ appena scongelati ed agli inventari da enciclopedia. Come in altri casi simili, quello che segue è un ricordo puramente personale, che cerca di fissare in singole ‘istantanee’ le tappe di una lunga e movimentata vita musicale. Mettetevi comodi, inizia il film (e soprattutto cliccate sulle clips….)

Wayne Shorter ci ha lasciato alla soglia dei 90 anni. Forse lui avrebbe detto solo di ‘esser partito’, considerata la sua profonda e complessa visione del mondo.

Questa storia inizia in un’aula di scuola, con un ragazzino che disegna astronavi ed extraterrestri: scoperto, viene punito con una sorta di consegna nella sala di musica (!). Ironia della sorte, passeranno quasi settant’anni prima di poter veder pubblicata una sua storia a fumetti.

Eccolo il primo ‘albo’ di Wayne, incluso in ‘Emanon’, uno splendido box discografico che sarà anche il suo canto del cigno

Wayne non è un musicista nato, metterà le mani su di un clarinetto solo a 16 anni, piuttosto tardi per gli standard delle vite jazz degli anni ’40. Seguendo un destino familiare, ci sarà anche un periodo di lavoro in fabbrica. Ma il grigiore e l’alienazione lo spingono ad una fuga: a New York, dove all’università consegue il primo di una lunga serie di diplomi. Due anni di servizio nell’Air Force gli consentiranno di affinare il suo bagaglio professionale.

1964. “Free for All”, la ‘penna’ di Shorter comincia ad aguzzarsi….

Dopo alcuni fugaci ingaggi (Horace Silver, Maynard Ferguson), nel 1959 la sua carriera parte di slancio ad altissimi livelli, con i Jazz Messenger di Art Blakey. Per capire di che tipo di formazione si trattasse, basti pensare che Miles Davis aveva impartito al suo temuto agente la disposizione tassativa di non accettare alcuna scrittura che prevedesse la condivisione del palco con i Messengers del 1960, senza alcun riguardo al compenso offerto. Dettaglio significativo, conoscendo Miles ed i ricchi cachets offertigli già all’epoca.

Tra le fila della band spesso imperversano accanite discussioni in materia di teoria musicale, che vedono affrontarsi ingegni del livello di Lee Morgan e di Cedar Walton. Il giovane Shorter vi assiste da un angolo, sempre in silenzio. I compagni lo stuzzicano a pronunziarsi: con la sua proverbiale laconicità, Wayne spiega in due frasi il suo punto di vista. Da quel momento nessuno si azzardò più a pontificare in sua presenza.

La cosa non sfugge allo scafato Blakey, che apostrofa così il giovane sassofonista: “Shorter, non nasconderti dietro lo strumento”. E lo nomina sul campo direttore musicale della formazione, mettendosi sotto i piedi tutte le consuetudini di rispetto dell’anzianità e dell’esperienza profondamente radicate nella comunità jazzistica.

‘Witch Hunt’ da ‘Speak No Evil’. La ‘caccia alle streghe’ (sic! titolo che parla da solo…) farà parecchi proseliti, entrando nel Fake Book degli standard moderni

Nel frattempo, Shorter avvia una brillante carriera di leader in proprio, mettendo su casa nella Blue Note di Lion e Wolff dei primi anni ’60, un vero vivaio di talenti che si scambiano continuamente i ruoli producendo alcuni classici del jazz moderno ed anche qualcosa di parecchio più avanzato. E così i suoi ‘Night Dreamer’, ‘JuJu’, ‘The All Seeing Eye’, ‘Adam’s Apple’, ‘Speak no Evil’ vantano formazioni che sono l’almanacco di Gotha del jazz degli anni ’60: Freddie Hubbard, Grachan Moncur III, Reggie Workman, Elvin Jones, Joe Chambers, James Spaulding. Una menzione a parte meritano i pianisti, del calibro di McCoy Tyner ed Herbie Hancock: il solismo ancora vigoroso e trascinante di Wayne già mostra qualche vena di quella introversione notturna che esige un solido e strutturato sostegno e stimolo dalla tastiera, sino a richiedere negli anni futuri delle vere e proprie simbiosi con i pianisti. Ma ci torneremo nelle prossime righe. Tanta e tale è la musica che urge in quel periodo, che per quindici anni dormirà sugli scaffali una perla come questa:

‘Barracudas (General Assembly)’, da ‘Etcetera’. Il sax indagatore ed erratico di Shorter veleggia negli spazi aperti di Gil Evans. Splendida copertina di Reid Miles, l’ennesima

Blakey è un personaggio rispettato nel non facile ambiente del jazz anni ’60: un duro al quale è impensabile fare lo sgarbo di soffiargli di soppiatto un talento appena scoperto e gratificato della  clamorosa promozione sul campo di cui si è parlato. E quindi ‘Miles l’arrogante’ per la prima e forse unica volta nella sua vita si reca dal temuto rivale con il cappello in mano: per lui è chiaro che avere Shorter con sé vale una vera ‘andata a Canossa’. A Blakey basta uno sguardo per capire che non c’è gratitudine o lealtà che tengano: il posto di Wayne è ormai con Davis.

Dopo una serie di rimpiazzi a catena (Hank Mobley, George Coleman, Sam Rivers, spesso liquidati con apprezzamenti sferzanti ed ingenerosi), finalmente Miles ha trovato il sassofonista in grado di colmare il vuoto lasciato da Coltrane. Paradossalmente va notato che, a parte qualche ovvio ossequio verso la dilagante egemonia del modello coltraniano, sia lo strumentista che il musicista Shorter cominciano a prendere una strada sempre più personale e divergente: morbidezza verso cristallina durezza, sinuosità verso travolgente eloquenza, penombra verso luce abbagliante, rarefazione verso densità sempre più parossistica, dubbio interrogativo verso estatica assertività. Un eretico in un mondo di entusiasti credenti coltraniani.  

 

“Wayne, where’s the book?”

Il viaggio sul treno suburbano che porta a downtown New York City è lungo, la febbrile creatività di Wayne è inarrestabile: su di un piccolo taccuino, forse una semplice agendina, abbozza qualche idea. Cambio di scena: poco più tardi, negli studi Columbia della 30th Street, detti non a caso ‘The Church’: ci sono passati Stravinsky, Horowitz, Bruno Walter, Leonard Bernstein, Glenn Gould ci ha registrato le Goldberg Variatons di Bach (le prime, quelle del 1955), nel 1958 ci è nato ‘Kind of Blue’ dello stesso Davis. Wayne tira fuori il suo libriccino per rinfrescarsi la memoria e…… Davis piomba come un falco: ‘Cos’è quello?’. Poco dopo seguirà questo.

1965. E.S.P., il disinvolto Miles non metterà mai le mani su di un brano di Shorter. Altri non furono così rispettati (Bill Evans, tanto per non far nomi…).

Per anni a venire le sessioni di registrazione del Quintetto, quello Maiuscolo, quello che definirà il canone del jazz moderno toccando esiti estetici tuttora difficilmente eguagliati, cominceranno con un rantolo luciferino: “Wayne, where’s the book?”. Mai una pattuglia di giovinetti (Tony Williams non aveva neppure diciott’anni) avrebbe potuto arrivare a tanto senza la penna di Shorter, che imprime al quintetto un’inconfondibile cifra di enigmatica inafferabilità, di apollineo equilibrio.

1968Petit Machins (Little Stuff)’ da ‘Filles de Kilimanjaro’. Spiacente, ma il distico di ‘In a Silent Way’ è troppo lungo (ascoltatelo comunque per vostro conto). Del resto è alle pendici del Kilimanjaro che tutto è iniziato….

Ma anche le notti più intense finiscono in un’alba: e Miles ha presentito quella dell’Era Elettrica. Paradossalmente molti dei suoi giovani compagni recalcitrano e lo lasciano. Shorter no, rimarrà con lui fino al 1970: sarà in ‘In a Silent Way’, e soprattutto nell’ancora futuribile ‘Bitches Brew’. La penombra avanza, il silenzio ed i grandi spazi dilagano come un’onda di marea: Wayne è ancora l’eminenza grigia. 1970: nell’Isola di Wight saranno in 600.000 ad ascoltare questa musica. Nuovi tempi si annunziano….

‘Directions’, Wheather Report dal vivo a Tokyo nel 1971, l’ombra di Miles aleggia ancora. Negli esecrati ’70 questa musica riempiva gli stadi: per molti il tremendo drive del Bollettino Meteologico dal vivo è stato il battesimo jazzistico

Prima ancora che nelle band elettriche di Davis, Wayne si è imbattuto in Joe Zawinul molti anni prima; un semplice prologo di quella che sarà una grande avventura. Con il pianista austriaco amico d’infanzia di Frederich Goulda nasce un intenso rapporto speciale. I due si integrano alla perfezione: Zawinul sa cavare dalle tastiere elettriche suoni scintillanti, architetture spesso grandiose che sembrano garantirgli il dominio della scena: ma sono le rade, cangianti pennellate del sottile sax soprano  di Shorter (è ormai il suo strumento d’elezione) a dare il tocco definitivo ai multicolori e multiformi affreschi dei Wheather. Si affacciano talenti del calibro di Miroslav Vitous, dell’indimenticabile Jaco Pastorious, degli indomabili uomini del ritmo brasiliani come Dom Um Romao e Airto Moreira. Negli affascinanti Report dei primi anni emerge con evidenza la propensione di Shorter per i vasti spazi, per gli sguardi meditativi su orizzonti lontani, per la trepidante laconicità che saranno le cifre distintive della sua ultima stagione.

‘Infant Eyes’: occhi di bambino. E’ facile capire quali…….

Un cursus honorum senza battute d’arresto, quello cui abbiamo sinora assistito. Ma questa è la scena pubblica. All’uomo Shorter nel frattempo vengono inflitte durissime prove: la perdita di una bambina colpita da una gravissima invalidità, la morte in un incidente aereo della seconda moglie e dell’amatissima nipotina, la fine prematura del tormentato ed incompreso fratello Alan, anch’egli musicista. Quando spesso sento parlare di ‘spiritualità’ esibita e proclamata in interviste e conferenze stampa, non riesco a non pensare al silenzioso e rigoroso buddismo di Wayne: una visione del mondo scevra di promesse salvifiche e di consolazione, ma portatrice di una essenzialità e lucidità che traspariva con evidenza dai parchi interventi pubblici di Wayne, che spesso rasentava la fulminante saggezza di un maestro Zen.

Ma torniamo al palcoscenico. All’inizio degli anni ’80 calano i titoli di coda sul Bollettino Meteorologico, non senza lasciarsi alle spalle hits memorabili che ancora risuonano in sigle radiofoniche. Nel frattempo Shorter si era concesso anche altre avventure musicali: il VSOP con cui si inseguiva la magia del Quintetto, sostituendo il Miles sprofondato nella notte del suo ritiro dalle scene con un vigoroso e solare (troppo) Freddie Hubbard, una serie di dischi per la Columbia in cui si riprendono alcune trame etniche degli arazzi degli ultimi Wheather Report, collaborazioni sparse, alcune anche un po’ glamour. Shorter sembra uno dei tanti vagabondi erranti nella colorata, ma fragile diaspora jazzistica degli anni Ottanta.

2002, ‘Footprints Live’, un grande ritorno. Notare lo sguardo puntato sulla bussola: altra magnifica copertina

Può l’ ‘Uomo delle Idee’ accontentarsi di un leggero, lussuoso vagabondaggio, che vede una qualche appannamento della sua precedente, inossidabile fortuna critica? Certo che no. All’alba del nuovo millennio fa la comparsa un quartetto con Danilo Perez al piano, John Patitucci al basso e Brian Blade alla batteria. D’ora in poi vedremo apparire quasi solo dischi dal vivo, che fotografano alla perfezione l’estemporanea, palpitante ricerca di Shorter. Il suo laconico ed indagatore soprano è contrastato da un gruppo teso e nervoso, con il quale intercorre una silenziosa, ma solidisssima intesa telepatica che porta ad un risultato di magica sottigliezza. ‘Without a Net’, ‘Senza Rete’ , non ci poteva esser miglior titolo per uno dei loro ultimi album: sotto molti profili il Quartetto (maiuscolo) degli anni 2000 appare il naturale erede del Quintetto degli anni ’60. Ma nello stesso album irrompe per la prima volta un complesso da camera in un ‘Prometheus Unbound’, altro titolo sottilmente allusivo: il canto del cigno sarà l’aereo ed avveniristico ‘Emanon’ in cui comparirà l’anticonformista Orpheus Chamber Orchestra, un’ensemble senza direttore per le ultime, ariose pagine di Wayne il compositore.

Nello Spazio non ci sono reti…

Siamo all’epilogo difficile del film di parole. Vorrei che fosse come quei finali aperti delle pellicole dei miei tempi, un fermo immagine che da una parte riepiloga tutto con un’istantanea folgorante, e dall’altra ci suggerisce che la storia continua ancora al di fuori del fotogramma. Bene, pensando all’avventura di Shorter non mi viene altro in mente che quest’immagine (ah, le copertine di una volta che abbiamo perduto…) e questa musica cosi piene di spazio. di silenzi, di magnetici orizzonti lontani: quelli che anni prima avevano ormai stregato gli occhi del ragazzino che disegnava fantascienza….  Milton56

1975. Ancora Wheather Report. Un Viaggatore Misterioso in cammino verso cieli densi di prodigiosi presagi….

8 Comments

    1. Quasi tutti gli articoli sulla scomparsa di Shorter si fermano alla fine dell’esperienza dei Wheater Report. I più ruffiani poi citano le collaborazioni e i camei con cantanti, soprattutto se italiani. Pochissimi affrontano invece l’ultima stagione di Shorter, il quartetto con Perez, Patitucci e Blade, un capitolo di pari dignità, se non addirittura di visione superiore, immaginifica e futuribile, che a mio parere sarà pienamente compresa e valutata solo con il tempo. Bravo Milton che in uno spazio compresso come deve essere un blog sei riuscito a tratteggiare l’intero percorso artistico

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  1. Tralasciamo, come (quasi) sempre succede i media generalisti nostrani, che poi sono quelli che sfornano titoli del tipo “Ci vuole competenza, altro che jazz”… non se ne ricava (quasi) nulla di significativo.
    Bell’articolo. La cosa che mi piace di più di Shorter è che non si è mai adagiato. È cambiato musicalmente sia chiaro, ma in fondo come approccio alla musica è rimasto quello che divenne ben presto direttore musicale del magnifico combo di Art Blakey.

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  2. Ho iniziato ad ascoltare Shorter quando suonava con i Weather Report. Ero molto attratto da questa band avanti nei tempi.Grandi musicisti anche se hanno cambiato genere, si sono sempre evoluti. Allora le idee erano tante, le menti erano vulcani sempre in attività. Il jazz era ed è musica per soli eletti. PURTROPPO.

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  3. A cavallo tra ‘800 e ‘900 abbiamo avuto Cajkovskij, Debussy, Stravinskij, alla fine del ‘900 i Weather Report. Grazie Wayne per aver scritto un capitolo di storia della MUSICA.

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