Uno strano odore

Prendiamo il nuovissimo cartellone che pubblicizza il JazzMi festival autunnale a Milano, ma potremmo estendere il discorso al festival di Bergamo da poco concluso, o al prossimo News Conversations di Vicenza: tutti programmi dei quali è impossibile parlare male, ma che, allo stesso tempo, sollecitano alcune riflessioni. Parlo ovviamente da semplice appassionato che non ha conflitti di interesse, non sono un giornalista nè un critico musicale, seguo questa musica da più di mezzo secolo, e, se non altro, l’esperienza mi porta a determinate conclusioni.

Anni fa Gerlando Gatto, in un editoriale sul suo A Proposito di Jazz, sottolineava come in Italia ci fossero più di 400 festival jazz all’anno, ma che, ad onta dei numeri, la situazione fosse tutt’altro che brillante. Pochissimi, infatti, i cartelloni con un senso, un percorso, una linea rossa, un progetto. La grande maggioranza poi, limitati ad un respiro locale, senza i numeri, il budget ed i nomi per avere una risonanza non dico internazionale, ma neppure nazionale, spesso organizzati da musicisti locali che invitano amici per poi essere a loro volta invitati, nel perfetto meccanismo del voto di scambio.

Insomma, tanto fumo ma poco arrosto, soprattutto se poi lo sguardo volge ai festival più grandi e più famosi. La preoccupazione più evidente  dei direttori artistici pare esclusivamente quella di riempire teatri ed arene, e ovviamente a questo scopo vanno benissimo nomi che con la musica afro-americana hanno parentele di diciottesimo grado non certificato. Non è il caso dei festival di cui parlo all’inizio articolo, li’ almeno la dignità e la coerenza storica sono mantenute, ma altrove il malcostume è cosi’ diffuso che ormai rappresenta la normalità. La musica jazz in alcuni macroscopici casi, più che supportata è sopportata, tanto da costringere musicisti e pubblico a concerti in assurde ore pomeridiane e in teatri minuscoli senza aria condizionata in pieno luglio. Roba da atleti di triathlon o da uomini blu del deserto del Sahara, per di più senza cammello.

Ma tornando al concetto iniziale, a me pare che i migliori festival nazionali, con alcune eccezioni lodevoli, si rivolgano più che agli appassionati di lungo corso (o sorso?), ad un pubblico più generalista ed incline al facile applauso. Cosi’ si spiegano i tanti nomi che, ad onta del tempo, hanno abbondantemente già raccontato tutto quello che potevano esprimere, a discapito dei nuovi fermenti e delle tendenze più intriganti che provengono sia dagli States che da altre nazioni del mondo. Insomma, non solo è difficile individuare un filo logico, sembrano sostanzialmente cartelloni affastellati dalle agenzie con gli americani in transito, ma soprattutto non c’è nessuna voglia di rischiare, di proporre e di intrigare.

Ovvio che cosi’ facendo si crea un pubblico pigro, che difficilmente accorre se non per nomi più che conosciuti, mi verrebbe da dire abusati, spesso fino all’eccesso. Fatto facilmente verificabile anche e soprattutto con i nomi dei jazzisti italiani. Noti tromboni mediatici non fanno che magnificare il nostro jazz come il migliore del mondo, forse (bontà loro) solo inferiore a quello americano, e poi nei programmi troviamo Paolo, Enrico, Fabrizio e tutta la piccola schiera dei soliti noti a discapito dei giovani che, spesso, hanno molte più frecce al loro arco degli (stanchi) eroi di cui sopra, e rimane difficile comprendere come ancora esistano italiani che non li abbiano ammirati nei loro mirabolanti concerti, comparsate televisive, ammiccanti presenze a fianco di cantanti, nani e ballerine di vario gender.

Concludendo, come avrebbe detto Mike Bongiorno, ci vuole proprio un grappino per noi jazzofili geriatrici per digerire nomi, titoloni dei media e roboanti affermazioni dei vari direttori artistici, che al più farebbero sorridere chi minimamente sia in grado di stabilire che Woody Shaw non era un personaggio dei cartoni animati ma un formidabile e misconosciuto trombettista americano,  che in pochi anni di carriera ha detto più cose di quante ne potranno dire in una vita intera i migliori jazzisti (italiani) del mondo.

Per fortuna esistono ancora i festival di tendenza, quelli cioè che con la costanza e negli anni hanno cresciuto un pubblico curioso, attento, informato. E la risposta in termini numerici è incoraggiante, incredibilmente senza rock star della terza età, fenomeni dell’autotune o  di X-Factor. Il jazz non è morto, ma quello che si ascolta in molti festival effettivamente ha uno strano odore…  

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