BROWN AND ROACH INCORPORATED
EMARCY – VERVE (€.12,50)
L’encomiabile ditta “Brown & Roach Inc.”, a dispetto della breve durata, è da considerarsi fondamentale per ogni appassionato, per i livelli raggiunti ed in fondo anche per l’aura tragica, con sfumature eroiche, che pervade ogni loro brano inciso. A 23 anni Clifford Brown suonava davvero come un semidio, l’emozione che il suono della sua tromba suscita è tutt’ora intatta e forse insuperata; accanto a lui ecco il trentenne Max Roach, già affermato jazzman, pronto a traghettare il bebop verso nuove frontiere, dispiegando una notevole varietà di timbri, scomponendo e riassemblando le frasi ritmiche, concedendosi al contempo misurati e brucianti assoli.
Siamo nel torrido agosto losangelino del 1954, il Senatore Joseph McCarthy bracca sospettati di comunismo ovunque, i jukebox passano Perry Como e presso i Capitol Studios entrano con passo dinoccolato i componenti del primo quintetto cointestato ai due leader e completato dal volitivo sax tenore del texano Harold Land, dal bassista George Morrow e dal giovane Richie Powell, talentuoso fratello minore del gigante Bud.
La scanzonata “Sweet Clifford” apre le danze con Clifford che, dopo il primo solo di Land, fila via velocissimo lampeggiando classe ad ogni singola nota, prima di sciogliere ogni cuore in ascolto nella lentissima ballad “I Don’t Stand A Ghost Of A Chance”, proposta in quartetto, sette minuti e passa che volano in un sospiro.
Nell’altra ballad in scaletta, “I’ll String Along With You” tocca a Richie Powell mettersi in luce, nella rarefatta atmosfera di un trio pianistico che avrebbe sicuramente meritato maggior documentazione, ma come la crudele storia insegna sarà un violento incidente sulla strada tra Philadelphia e Chicago ad uccidere Richie (24), sua moglie Fancy (19), al volante nella notte piovosa, e Clifford Brown (25).
Qualcuno negli anni avrà di certo consumato il microsolco di ascolti, per lui e per chi vuole regalarsi un’ora di grande jazz senza affidarsi ad ascolti liquidi e distratti, l’acquisto è pressochè obbligato.
(Courtesy of AudioReview)
“La Premiata Ditta Roach & Co.”…. La ‘Ditta’, forma aziendale ormai desueta (le perdite si pagano di tasca propria), più recentemente metafora politica caricata di involontaria ironia e di sicura valenza iettatoria. Non sono però sicuro che il rapporto tra il trentenne Roach (musicista già affermato e con uno status artistico già di grande rilievo) e gli ‘young cats’ Richie Powell e Clifford Brown possa esser definito efficacemente così. Sentiamo cosa dice in proposito quel disincantato, ma informato cronista del jazz del dopoguerra che, tra le mille altre cose, è stato Miles Davis (amico personale di Roach, scazzottate comprese…):
“La morte di Brownie fu un gran brutto colpo per Max Roach, perché lui e Brownie avevano messo insieme un grande gruppo, e con Richie e Brownie morti, Max decise di chiudere. Questo spezzò qualcosa nella testa di Max e penso che non abbia più suonato nello stesso modo da allora. Lui e Brownie erano fatti l’uno per l’altro per il modo in cui suonavano, molto veloce, così da alimentarsi l’uno con l’altro. Max mi diceva sempre quanto gli piaceva suonare con Brownie. La sua morte lo colpì profondamente e non si riprese per molto, molto tempo”
A mio avviso, anche qui ci troviamo in presenza di uno di quei rapporti di filiazione spirituale, oltre che artistica, di cui la storia del jazz è piena, quantomeno nel periodo in cui questa musica si sviluppava ancora in un circoscritto ambito comunitario. Mi viene alla mente il rapporto di Parker con lo stesso Davis, e soprattutto quello ancora più intenso di Mingus con Dolphy: nonostante le continue rampogne del primo per la nota ingenuità e modestia del giovane Eric, si dovettero metter in mezzo in quattro per fermare un Mingus accecato dall’ira che voleva ‘chiarimenti’ dai medici tedeschi che ebbero sulla coscienza la sua morte (una delle tante tragedie del jazz). Guarda caso, il primogenito di Mingus porta il nome di Eric. Anche quello di Gil Evans si chiama Miles…. C’è una ‘Storia edipica del Jazz’ ancora tutta da scrivere…….
Milton56
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Sai che, istintivamente, non credo molto alla “Versione di Miles”? Lo stesso Roach quando uscì l’autobiografia davisiana disse che Miles stava rincoglionendo ed aveva scritto una marea di “inesattezze”. 🙂 Del resto non si tratta tout court dello zenith della carriera di Roach che ha continuato a suonare splendidamente anche dopo la morte di Clifford, evolvendo continuamente il suo stile. I periodi di crisi coincisero piuttosto con la morsa delle tossicodipendenze e i vari rovesci personali.
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