In viaggio nell’universo di Giovanni Falzone (nostra intervista)

Un cronista che fosse incaricato di narrare la vita artistica di Giovanni Falzone, quarantacinquenne trombettista di origini siciliane, uno dei musicisti jazz più eclettici del panorama nazionale, non reggerebbe l’impresa, con ogni probabilità,  per più di un solo anno.
Mettiamoci  per un istante nei panni dell’incauto reporter per riepilogare gli ultimi capitoli di una carriera ormai ventennale. Nel 2018 è uscito per Musicamorfosi “Far east trip“, un lavoro per quintetto ispirato alla suite di Duke Ellington, che Falzone ha inciso con una front line di fiati, composta, oltrechè dalla sua tromba, da quella di Massimo Marcer, dal sax di Massimiliano Milesi dal trombone e tuba di Andrea Baronchelli e dalla batteria di Alessandro Rossi. Diviso a metà fra interpretazioni ellingtoniane e brani originali, il lavoro ha conquistato per la capacità di costruire una musica nuova ed attuale partendo da un terreno classico. Agli inizi di Giugno 2019 insieme all’Orchestra sinfonica Giuseppe Verdi diretta da Francesco Bossagli, Falzone ed il suo Border trio (Gianluca Di Ienno alle tastiere ed Alessandro Rossi alla batteria) ha presentato a Milano una composizione originale in quattro movimenti ispirata all’ultimo lavoro di David Bowie, intitolata “Blackstarsuite”. Un ritorno alle origini del mondo classico, all’orchestra nelle cui fila Falzone oltre quindici anni fa, prima della “scoperta” del jazz, suonava come seconda tromba sotto la direzione di Riccardo Chailly, ed insieme un omaggio all’universo rock, esplorato con passione in altri episodi dedicati, ad esempio, a Jimi Henrdix o ai Led Zeppelin. E’ inoltre in vista una prossima riproposizione, in sedi lombarde, di “A love supreme“, originale mix di Bach e Coltrane, interpretato con jazzisti e musicisti classici, presentato la scorsa primavera nel Duomo di Monza.
Ed infine, da poche settimane è uscito per  Parco della Musica un nuovo album in quartetto, “L’albero delle fate“, nel quale Falzone , insieme ad Enrico Zanisi al pianoforte, Jacopo Ferrazza al contrabbasso ed il fido Rossi alla batteria, riscopre una dimensione totalmente acustica della propria musica, con l’intento dichiarato di ” miscelare il jazz con tutte le forme di scrittura e improvvisazione che si sono avvicendate durante il XX Secolo “, e lasciando ampio spazio a componente melodica e dimensione ritmica.
Da alcuni anni amo molto trascorrere il mio poco tempo libero sul delizioso Lago di Endine dove cammino, osservo, penso, immagino… e dove riesco a percepire la vita nella sua essenzialità e bellezza più alta, laddove è a contatto con la natura. Per questo mio nuovo lavoro ho voluto comporre una serie di “cartoline sonore” che narrano di sentieri, enormi sassi, alberi, animali, colori, fonti d’acqua; suoni e suggestioni. In un’epoca in cui quasi tutto finisce per essere riconducibile all’infinito e sterile mondo virtuale, questo minuscolo luogo, così colmo di semplice e maestosa bellezza, mi regala la consapevolezza di qualcosa di grande!

Il lavoro inizia sui passi di un  “Sentiero”, un ostinato di pianoforte, un rotondo groove ritmico sul quale subito la tromba modella un tema insieme delicato e perentorio, e prosegue nelle successive otto tracce all’insegna di una precisa cifra stilistica, orientata all’essenzialità, alla comunicativa senza fronzoli evitando le ricercate vie contorte che spesso sentiamo percorrere da musicisti contemporanei anche italiani. Ci sono le dinamiche convulse, le pause oniriche ed il successivo esaltante crescendo ritmico condotto da Zanisi de “Il magico sasso”, le stralunate atmosfere vuadeville condotte da una tromba felliniana di “Il mondo di Wendy” con uno spigliato solo di Zanisi, la toccante poesia sonora di “Capelli d’argento”, sottolineata dal contrabbasso di Ferrazza, l’urgenza della title track con il suo tema sincopato scolpito su una base ritmica drum and bass, e la velocità a volo d’uccello di “Madre Terra”; ed ancora  le immaginifiche atmosfere di “Frida”, il robusto impianto ritmico di “La fonte” e la delicata melodia di “Neve”, introdotta dal pianoforte di Zanisi, con la tromba capace di celare, dietro tenui veli orientali, alcune note del tema di “Round Midnight”.

Un disco che riesce a trasformare il percepibile accurato lavoro sulla composizione  in leggerezza e comunicativa,  mirando al cuore della materia musicale con espressività, senza nascondere dietro a silenzi o stratagemmi sonori l’intento di colpire l’emozione dell’ascoltatore: musica di impatto immediato, estroversa  come il carattere di Falzone,  che in queste righe trascritte da una chiaccherata, si racconta senza pudori nè pose da musicista “arrivato”.

All’inizio della storia di Giovanni Falzone come musicista c’è una festa tra adolescenti, nel paese collinare di Aragona, in provincia di Agrigento. Una pausa nella musica suonata dal complessino di turno, una tromba appoggiata in un angolo, e la curiosità di un diciassettenne all’ultimo anno di superiori.

In effetti è iniziato tutto per caso. Quella volta, chiesi all’amico che era il proprietario della tromba di poterla provare e lui fu subito molto disponibile. Quindi successe qualcosa, scattò una scintilla che mi ha poi fatto cambiare completamente le prospettive di vita. Andai dal maestro della banda del mio paese, Aragona, per chiedergli informazioni sulla tromba e lui, un po’ stupito del fatto che un ragazzo così grande si avvicinasse alla musica, mi fece provare un suo strumento e capì subito che probabilmente avevo il labbro giusto per suonare. Quella sera stessa mi diede la tromba e mi consigliò di provare a suonare ad orecchio per poi fargli ascoltare, qualsiasi cosa volessi. Ricordo che la sera stessa abbozzai senza sapere neanche come, le note di “In the mood“ di Glenn Miller. Andai dal maestro tutto contento e lui capì che stava nascendo una passione e mi prese sotto la sua ala. Non imparai subito a leggere la musica, ma all’inizio seguivamo un metodo didattico del tutto particolare: il maestro mi registrava delle marce per banda su pianoforte, mi faceva delle fotocopie dello spartito segnando i numeri corrispondenti alle posizioni dei tasti della tromba. Io ascoltavo il tutto in una cassetta su walkman cercando di seguire le istruzioni. In un paio di mesi di questo metodo avevo imparato più o meno tutte le marce del repertorio e fui in grado, ricordo era verso Aprile, di fare la mia prima uscita con la banda.
A quel punto avvenne la seconda grande svolta che mi avvicinò definitivamente alla carriera musicale. Un amico che suonava nella banda e frequentava il conservatorio, iniziò a chiedermi se la cosa potesse interessare anche me. Io, che quell’anno dovevo sostenere gli esami di maturità, ero molto indeciso, anche perché all’epoca una forte discriminante per l’iscrizione era data dall’età ed io ero decisamente grande rispetto alla media dei giovani che avrebbero avuto sicuramente la precedenza. Alla fine il mio amico compilò la domanda anche per me, e mi trovai a fare la prova per l’ammissione, alla quale risultai idoneo, ma fra le ultime posizioni: normalmente la scuola prendeva due o tre fra i primi, per cui pensavo che non se ne sarebbe fatto nulla e mi preparavo già alla mia estate di vacanza post diploma, quando invece il destino volle che il Conservatorio di Palermo quell’anno, avendo aperto una nuova classe, decise di prendere tutti gli idonei. Iniziò così per me una sorta di viaggio un po’ misterioso in cui si trattava di iniziare ad imparare la lettura della musica, cosa per me all’epoca del tutto sconosciuta, avendo preparato esami e prove solo ad orecchio. L’insegnante al Conservatorio da un lato era un po’ scioccato, dall’altro affascinato dalla mia passione, ma mi prese in simpatia e mi mise a studiare con l’insegnante di solfeggio più rigoroso della scuola. Mi diplomai in quattro anni, al posto dei canonici sette, facendo all’inizio passi da gigante, con i primi tre anni riassunti in uno, completamente rapito da questa nuova esperienza che mi coinvolgeva completamente nello studio dal mattino alla sera.

Era solo curiosità verso la tecnica dello strumento o anche attrazione per un modo di vivere “jazz” che tu avevi iniziato ad intravedere?
A dire la verità questo è arrivato dopo. All’inizio mi conquistava totalmente il suono dello strumento. Solo dopo ho capito che esisteva un intero mondo di cui ero all’oscuro, sia a livello tecnico, con le svariate possibilità che lo strumento poteva offrire, molto oltre i ruoli che fino ad allora avevo ricoperto nella banda, che dal lato umano. Tanto è vero che non avevo modelli precisi di riferimento, anche se rimanevo stupito dalle scoperte che facevo ogni giorno agli studi, vedendo gli allievi più grandi suonare. Verso la fine del corso di studi, un amico che seguiva i corsi con me ed era già appassionato di jazz, mi registrò una cassetta di musica di Wynton Marsalis dove c’erano composizioni sia classiche che jazz, che mi sembravano esempi di virtuosisimo davvero inimmaginabile per me. Da lì iniziai ad incuriosirmi, e grazie ad un regalo che ebbi dai miei genitori, una audio cassetta di Louis Armstrong, scoprii questo suono che fino ad allora avevo solo immaginato, un suono in grado di associare il colore ed il tono squillante e soave della tromba ad un tipo di pulsazione che mi prendeva allo stomaco. Fu quella la prima scoperta. Al Conservatorio dovevo però un po’ mantenere in segreto questa passione, perché non era visto di buon occhio l’avvicinamento al jazz da parte di chi era chiamato a studiare musica classica.

Chi furono all’epoca i tuoi riferimenti nel jazz?

Il primo in assoluto proprio Louis Armstrong, poi iniziai a scoprire maestri come Davis, Baker ed i più celebri trombettisti. In seguito, seguendo un’attività sempre più importante sul versante classico, con l’Orchestra Sinfonica di Milano, mi avvicinai alla musica contemporanea, e venne quindi naturale la curiosità per quei jazzisti che operavano un po’ al confine tra i due mondi, in modo meno legato alla tradizione, e quindi scoprii Don Cherry e Booker Little, che mi affascinò molto all’epoca. Quindi iniziò nelle mie preferenze, una sorta di convivenza fra i trombettisti classici come Armostrong, Gillespie , Clifford Brown, Lee Morgan Freddie Hubbard, e personaggi meno conosciuti e più eccentrici, in un processo che portava ad accumulare esperienze. Se è innegabile la poesia e la bellezza del suono di Miles o di Chet Baker, i percorsi più avventurosi di Little o Cherry o di altri musicisti meno convenzionali possono affascinare chi ha l’esigenza di andare a cercare sonorità ed esperienze più particolari.
Non ho comunque mai avuto un solo modello da indagare e scavare a fondo, ma ho sempre preferito prendere qualcosa da tanti, tutti quelli che mi suscitavano curiosità ed interesse.

Un approccio che è rimasto come cifra personale, se si guarda ai diversi contesti in cui tuttora operi : gruppi acustici, elettrici, orchestra, elettronica .

Ho mantenuto una curiosità per la musica a 360°. Il lavoro nell’orchestra mi piaceva molto, mi trovavo bene nel repertorio sinfonico, e, quando ho cambiato, nel 2004, è stato per una esigenza interiore, ho sentito che il mio suono stava prendendo altre direzioni. L’ambiente orchestrale ti vincola a certe parti, sei come una canna di un organo che deve vibrare insieme agli altri per fare suonare bene l’intera orchestra. Quando ho sentito che il mio suono non voleva più stare impalato alla sezione orchestrale, ho capito che dovevo iniziare a pensare alla musica in maniera personale, e cercare di far convivere più mondi musicali all’interno della mia esperienza. Ho fatto più di mille concerti in ambito classico e sinfonico, e mi dispiaceva abbandonare quel mondo che mi aveva dato tanto, così come mi spiaceva lasciare il rock che mi aveva dato belle vibrazioni fin dalla mia adolescenza. Il jazz ha rappresentato la sintesi di questi elementi, un contenitore in grado di abbracciare tante cose diverse che erano comprese nella mia idea di musica. La Contemporary Orchestra fondata nei primi anni del nuovo corso, era un progetto che contemperava tutte queste componenti: ci sono dentro elementi della classica e contemporanea come flauto e fagotto, poi la front line del jazz con trombe e sassofoni, ed una ritmica tipicamente rock. Il tutto unito dal grande catalizzatore che è rappresentato dal jazz. Nonostante si inizi a suonarlo rispettando i canoni che tutti i musicisti imparano nella propria formazione, i patterns o lo studio di un musicista preferito la sua componente creativa ti dà la possibilità di esprimerti per quello che sei.. A me è sempre interessato, fin dal mio apprendistato, anziché studiare un particolare musicista, trascrivendone e ripetendone gli assoli, cosa che, sia ben chiaro, è sempre molto utile e consiglio a tutti i miei studenti, approfondire la conoscenza e la pratica di tanti diversi linguaggi musicali, e trovare il modo di farli convivere fin dal livello compositivo. Questa attitudine in qualche modo mi ha fatto un po’ bruciare le tappe: fin miei primi dischi “Music for five”, o “Big fracture”, c’era questa idea musicale alla base, magari non matura, ma alternativa rispetto a quello che si poteva sentire in giro all’ epoca. Lo spirito vero del jazz è proprio quello di essere una sintesi, come lo era fin dall’epoca del ragtime o dello swing, cose che hanno sempre un po’ sciocccato i conservatori, perché in fondo un patrimonio consolidato di bellezza come quello racchiuso dalla tradizione difficilmente può essere messo in discussione: se avessi voglia di suonare solo gli standards jazz sarei comunque felice, ma che motivo ci sarebbe a ripetere pedissequamente gli schemi delle composizioni tradizionali già percorse da tanti anni?. La tradizione è sicuramente un grande tesoro, ma deve essere visitata in modo nuovo e non convenzionale. A proposito di definizioni, io preferisco comunque parlare di musica creativa: il jazz ci rimanda indietro nel tempo e dovrebbe essere un termine desueto, che abbiamo imparato ad usare per comodità, per riassumere più che altro la componente improvvisativa. Io mi vedo in futuro come musicista creativo piuttosto che jazzista. Il jazz è un punto di partenza per attuare tentativi e sviluppare esperienze che con una mentalità più convenzionale non sarebbero possibili.

around Ornette

La componente creativa del jazz è però molto influenzata dal rapporto umano fra musicisti e dall’interscambio anche istintivo che si crea o non si crea suonando.

Per me il rapporto umano è di vitale importanza. Sia che si tratti di un incontro al buio, quando c’è l’esigenza di trovare immediatamente un terreno comune per improvvisare insieme , sia in situazioni più strutturate e stabili. Mi è capitato di trovare un’ideale sintonia e complicità con musicisti malesi con i quali non abbiamo potuto scambiare neanche una parola, comunicando solo con la musica. Questo,secondo me è il momento più rappresentativo del linguaggio jazz. Altro aspetto è quello della formazione che dà vita ad un progetto specifico con l’apporto dei singoli musicisti: nel mio disco “Pianeti affini”, lungi dal volere diventare un astronomo, ho inteso dedicare un’opera ai micro e macro equilibri che tengono in vita le forze del nostro universo, trasportando, quindi, questo concetto all’interno di un gruppo in cui ogni componente, ogni “pianeta”, è rappresentato da un musicista e fornisce un contributo vitale alla riuscita della musica, grazie alla creatività che può mettere in gioco. Mentre nella musica rock o classica si tratta di avere la pazienza di provare e riprovare lo stesso pezzo fino a raggiungere la sincronizzazione e l’intesa esecutiva necessaria, nel jazz è fondamentale il rapporto con le altre persone proprio perché viene in gioco, nell’espressione della propria creatività, la componente personale di ciascun “pianeta”, e, se ci sono vibrazioni non positive fra i musicisti, questo si riflette inevitabilmente sulla musica. Anche se sei il leader di un gruppo devi poterti affidare, potere contare sugli altri, anche accettare che cambino quello che tu hai scritto : la fiducia totale, il fatto che ciascuno interviene in maniera attiva all’opera è la vera magia di questa musica. Classica e rock hanno la loro forza nel fatto di non spostare le virgole. Nel jazz invece, più sposti le virgole, più porti avanti i confini della musica, verso una continua scoperta. Questo aspetto affascina chi va un po’ più a fondo nel rapporto con questa musica, sia musicisti che ascoltatori, e riesce a sviluppare la capacità di avvertire l’inavvertibile. E’un po’ come osservare un quadro di Fontana: chiaro che tutti quanti saprebbero fare un taglio sulla tela, ma lo scopo dell’opera è proprio quello di andare oltre l’aspetto puramente materico. Il jazz, pur essendo una musica colta, ha mantenuto lo spirito di libertà che ti permette di dialogare con musicisti di tutti i paesi con un linguaggio comune.

Oltre che musicista sei anche attivo in un’altra forma espressiva, la pittura.
Ho iniziato a dipingere nel 2004, da quando ho lasciato l’orchestra. La pittura a che fare con il colore in termini universali, un concetto per me fondamentale: butto le mani sul colore e le metto sulla tela, mentre in musica il colore è astrazione. La Pittura è una sorta di compensazione rispetto all’approccio alla musica, dove la mia propensione deriva dallo studio e dalla conoscenza: in questo campo sono invece istintivo e autodidatta, mi baso solo sulla forza del gesto. Parto da un segno per andare dove mi porta un segno successivo, guidato solo dall’immaginazione.

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Foto copertina di Andrea Boccalini

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