Bruno Gussoni, da Don Cherry e Wadada Leo Smith all’utopia nomade della free improvisation

Una delle prime volte che ho seguito una sua esibizione, ho avuto l’impressione che si trattasse, più che di un concerto, di un’esplorazione sonora. Bruno Gussoni, ligure, attivo in musica dalla prima metà degli anni sessanta, è oggi uno degli esponenti italiani di spicco della free improvisation, un genere o, meglio, una modalità espressiva, nata nel continente europeo che rinuncia del tutto alla componente idiomatica ed al supporto ritmico per proporre una libertà formale assoluta. Il suo flauto opera sia in contesti acustici, che elettrici (come i gruppi con Diego Mune) o elettronici (con i musicisti riuniti dalla sigla Disaster Area), come documentato dagli estratti live del canale personale https://www.youtube.com/channel/UCeoshYzgRFB1LPkmgU9T-.

All’origine del percorso di Gussoni c’è però il jazz, frequentato da ascoltatore  e successivamente come esecutore, con esperienze a fianco, ad esempio, di Wadada Leo Smith ed, in una circostanza particolare che ci racconta dell’intervista, con Don Cherry. Stimolati da queste premesse, gli abbiamo chiesto di raccontarsi, cosa che lui ha gentilmente e celermente accettato di fare.

Come è iniziata la tua esperienza di musicista?

Ho iniziato a fare musica intorno alla prima metà degli anni ’60 con una chitarra, ma presto mi capitò di provare a  suonare un flauto traverso, e capii che questo era il “mio” strumento, anche perché la musica che preferivo ascoltare era il jazz, e pensai che il flauto fosse più indicato in questo genere, almeno per me. Fondamentalmente sono autodidatta, anche se ho partecipato a seminari, workshops, tenuti da importanti musicisti, ma ho sempre avuto una certa idiosincrasia nei confronti dell’insegnamento accademico. Credo che l’essere autodidatta ti dia una relazione molto più intima col tuo strumento, si arriva ad una conoscenza e ad una familiarità che l’insegnamento accademico non ti può fornire. E questo per la free improvisation è molto utile, quasi fondamentale direi.

Negli anni successivi, poiché sentivo l’esigenza di esprimermi in modo più totale, ho aggiunto al flauto anche il sax alto e il clarinetto basso, oltre a sintetizzatori modulari analogici, ma poi ho rinunciato completamente a suonare questi strumenti, decidendo di dedicarmi completamente alla famiglia dei flauti. Oggi suono il flauto traverso in do, l’ottavino, il flauto alto e il flauto basso, oltre a flauti giapponesi tra cui attualmente il mio preferito è lo shakuhachi. Negli ultimi mesi, mi sto dedicando quasi esclusivamente a questo strumento, perché mi ha fatto entrare in un mondo sconosciuto e affascinante, per me ancora tutto da esplorare, e questo per me è importante, perché non mi è mai piaciuto fossilizzarmi sul noto.

Quale percorso hai seguito per arrivare all’improvvisazione non idiomatica con la quale ti esprimi e chi sono i tuoi riferimenti nella storia del jazz?

Ho sempre amato il jazz; negli anni’60 avevo un amico più grande da cui ho imparato a conoscere  Miles Davis, Monk, Ellington, Parker, Mingus, eccetera. Poi – credo fosse il ’68 o ’69 – in un solo giorno mi capitò di ascoltare tre dischi fondamentali: “A Love Supreme” di Coltrane, “Out to Lunch” di Dolphy, e soprattutto “Chappaqua Suite” di Coleman. I primi due mi piacquero, ma il disco di Coleman lo trovai sconvolgente. Solo in seguito avrei imparato ad apprezzare anche Coltrane e Dolphy, che rimangono tra quelli che considero i “giganti” della musica, e non solo del jazz, e Dolphy  resta il mio flautista preferito in assoluto. Tornando a Coleman, ricordo che pensai: “Ecco, questa è la musica che vorrei fare”, e da quel momento volli ascoltare tutto di Coleman, acquistando i dischi che con difficoltà si riuscivano a trovare. Ascoltavo i dischi per ore, e ci suonavo sopra col flauto. Da Coleman poi sono arrivato a volere conoscere tutto del Free Jazz, Don Cherry naturalmente, e poi Albert Ayler, Archie Shepp, Bill Dixon, Cecil Taylor (un altro gigante), e tutti gli altri, collezionando anche un bel po’ di dischi.

Dal free jazz il passaggio alla cosiddetta Creative Music, è stato obbligato, sono stato folgorato soprattutto dalla scuola di Chicago (Art Ensemble, Braxton…), ed ho avuto la grande fortuna di conoscere personalmente musicisti importanti, quali Julius Hemphill, James Newton, Leo Smith, Roscoe Mitchell, Douglas Ewart, George Lewis, e molti altri, e con alcuni ho avuto la grande fortuna di suonare. Allora, negli anni ’70 in Italia c’erano molti concerti dove potevi ascoltare questa musica. La situazione del jazz d’avanguardia era molto stimolante. A Pisa, ad esempio, si teneva tutti gli anni un festival dove i musicisti più importanti dell’area della creative music erano affiancati dagli improvvisatori radicali europei, e appunto lì ho potuto conoscere la musica di Derek Bailey, Evan Parker, e altri padri della free improvisation. Ma se mi chiedi di dire chi è stato il più grande musicista di tutti i tempi non ho dubbi a rispondere Ornette! Per me lui è stato ed è tuttora il punto di riferimento, il mio faro. E devo dire che, nonostante il mio amore per Don Cherry, il Coleman che preferisco è quello dei dischi in trio con David Izenzon e Charles Moffett, perché secondo me lì poteva esprimersi più liberamente. Per lo stesso motivo il disco di Coltrane che preferisco in assoluto è “Interstellar Space”, in duo col batterista Rashied Ali.

Nel 1980 ho tenuto il mio primo concerto importante, in duo con il percussionista Alberto Belli. Abbiamo suonato in una rassegna di jazz a Genova, la stessa sera dopo di noi si è esibito James Newton in solo, e ricordo che la sera successiva ci fu il quintetto di Steve Lacy. Da lì è iniziata la mia carriera.

Direi che il mio percorso fondamentalmente si divide in tre fasi, non nettamente separate, ma in cui si possono distinguere certi caratteri, ognuna rappresentata da un musicista con cui ho suonato: Don Cherry e il free jazz, Wadada leo Smith e la creative music, Tetsu Saitoh e la free improvisation. Dopo un concerto con Tetsu Saitoh e Michel Doneda mi sono sempre più avvicinato alla free improvisation più radicale, arrivando ad un impegno totalizzante in questo linguaggio.

Che caratteri ha la scena europea di questa forma espressiva in cui sei inserito?

La free improvisation è un fenomeno nato in Europa e ancora oggi è maggiormente praticata soprattutto nel nostro continente, anche se non solo.  Diversamente dal free jazz, e anche dalla creative music, non ha forme definite. Nel free jazz c’era ancora una pulsazione ritmica che nella free improvisation manca completamente. Nella creative music c’è una forma, ci sono strutture – molto spesso i musicisti usano anche partiture su cui improvvisare – che qui invece mancano. Nella free improvisation – soprattutto in quella europea, appunto (ma anche in Giappone c’è una situazione che trovo molto stimolante), perché quella americana generalmente rimane più legata al jazz – mancano completamente le strutture che caratterizzano la musica idiomatica, il ritmo, la melodia, l’armonia. Ma queste vengono sostituiti dal tempo, dal suono, dallo spazio, dal silenzio. Si lavora col suono puro, più che con i parametri della musica, si  percepisce un nuovo tempo che non è quello regolare scandito dal metronomo o dall’orologio, ma il tempo interiore, un tempo che si dilata e si contrae, non è mai regolare, non è il ritmo delle musiche idiomatiche. Ci si muove nello spazio e lo si ascolta, non solo lo spazio fisico, ma quello sonoro. Soprattutto sono importanti le dinamiche di interazione tra musicisti, che si possono realizzare solo attraverso il rispetto reciproco e l’ascolto reciproco. L’ascolto in questa musica è determinante per una buona riuscita della performance, più che in ogni altra musica. 

Direi che la capitale della free improvisation rimane Londra, la città in cui è nata, ma abbiamo delle realtà interessanti un po’ in tutta Europa.  E anche in Italia abbiamo una bellissima realtà, anche se all’inizio ha faticato ad emergere. Basti pensare che è italiano il musicista che secondo me oggi rappresenta l’aspetto più avanzato di questa musica nel proprio strumento; mi riferisco al percussionista Marcello Magliocchi, con cui ho il piacere e l’onore di suonare. Marcello è conosciuto in tutto il mondo come un batterista assolutamente straordinario, ai massimi livelli. E in Italia non c’è solo lui vorrei citare qui alcuni dei grandi improvvisatori della mia generazione, con cui suono, che sono tra i migliori  specialisti mondiali del loro strumento, con anni di esperienza e collaborazioni con alcuni dei più grandi improvvisatori mondiali, penso al trombonista Angelo Contini, al chitarrista Eugenio Sanna, al polistrumentista Edoardo Ricci, al sassofonista Guy-Frank Pellerin, che non è italiano ma in Italia vive, sono i primi nomi che mi vengono in mente,  ma l’elenco sarebbe molto lungo. E ci sono anche dei giovani entusiasti, con molta voglia di fare, e questo è molto bello. Un altro aspetto importante nella free improvisation in Europa è la presenza femminile. Sono sempre più numerose le donne che la praticano, e devo dire che si trovano musiciste di talento davvero elevato. Non ci sono differenze tra maschi e femmine. Poi, in particolare, riguardo al mio strumento, il flauto, devo dire che le donne hanno la supremazia assoluta, credo di essere uno dei pochissimi flautisti maschi a fare free improvisation, ne conosco al massimo un paio in tutto il mondo, mentre le donne sono decisamente più numerose, ho suonato con alcune di loro, e tutte hanno un talento straordinario.

Un aspetto che mi interessa sempre è quello che riguarda il modo in cui le relazioni umane fra musicisti si riflettono sul prodotto finale. Che rilievo ha per te questo argomento?

Mi sembra che fosse Miles Davis che una volta affermò che non esistono buoni musicisti e cattivi musicisti, ma solo musicisti con cui puoi suonare e musicisti con cui non puoi suonare. Io sono d’accordo. Soprattutto nella free improvisation è indispensabile avere una buona relazione con i musicisti con cui suoni, altrimenti la cosa non funziona. L’ho sperimentato personalmente. Se io suonassi in un’orchestra sinfonica e avessi appena litigato con uno degli altri musicisti, credo che questo non si rifletterebbe sulla qualità della musica, ma nella free improvisation la relazione è la cosa più importante. Negli ultimi anni sto suonando con improvvisatori di tutto il mondo, con alcuni ci si ritrova qui e là, in occasione di festival o concerti, e devo dire che con quasi tutti si sono creati rapporti di stima, di amicizia. E’ sempre bello ritrovarsi e suonare insieme. Talvolta si vive insieme, si fanno le stesse esperienze, e la condivisione delle esperienze è uno degli aspetti più interessanti della vita dei musicisti improvvisatori. Direi quasi che siamo riusciti a realizzare un’utopia, un’utopia nomade, dove gruppi di persone si incontrano,  lavorano insieme, vivono insieme, realizzano un progetto artistico insieme, senza che ci siano leader. Poi si lasciano, i gruppi si scompongono, si incontrano con altri gruppi, si ritrovano di nuovo con gli stessi e così via. Non esistono gruppi stabili, è la prima musica veramente transnazionale, e ci si muove su diversi piani, in una sorta di nomadismo musicale. La free improvisation è una musica fondamentalmente anarchica, non ci sono gerarchie, non ci sono leader.

Nel genere che tu pratichi, una delle difficoltà che sperimento come ascoltatore è la capacità di immedesimazione nelle dinamiche che si sviluppano fra i musicisti. Hai qualche percorso metodologico da suggerire?

Non saprei veramente che approccio suggerire, se non quello di lasciarsi andare ed ascoltare. In effetti è strano capire quali siano le dinamiche di interazione, quale sia il “miracolo” che si crea in quel momento, credo che la cosa essenziale per noi sia annullare il nostro ego. Bisogna dimenticare tutto quello che si è studiato, imparato, suonato prima. Non si deve dimostrare a nessuno di essere bravi. Un errore che talvolta i neofiti fanno è quello di mettersi a suonare qualcosa affinché il pubblico capisca la bravura del musicista, qualche virtuosismo tecnico, ma questo è sbagliato Spesso capita di suonare per la prima volta con musicisti che non si erano conosciuti prima. Non si fanno neanche le prove, non avrebbe senso,si sale sul palco e si inizia a suonare. E se si tratta di musicisti con esperienza, la cosa funziona quasi sempre, anzi direi proprio sempre. Tra improvvisatori si instaura una conversazione, non necessariamente fatta di imitazioni e consensi, ma anche di dispute. Ma non si devono sopraffare gli altri, non deve esistere nessuna forma di narcisismo.  L’instant composition è davvero una composizione istantanea collettiva, a cui ognuno partecipa in ugual misura, che prende forma e si attua nell’attimo stesso in cui viene creata, e si distrugge subito dopo. Unione e indipendenza sono gli elementi fondamentali dell’interazione tra i musicisti. Questo è il bello della free improvisation, il fatto di usare un linguaggio comune per creare qualcosa che non si era mai ascoltato prima e mai più si ascolterà. La definizione che talvolta viene data di improvvisazione non idiomatica, non si riferisce tanto all’assenza di linguaggio, di idioma, quanto alla possibilità di scegliere volta per volta uno degli innumerevoli idiomi che possiamo usare. I musicisti hanno alle spalle esperienze diverse, c’è chi ha fatto il conservatorio e chi è autodidatta, chi proviene dal jazz, chi dalla musica classica, dal rock, eccetera. Ma, improvvisando, tutto viene dimenticato, e solo l’ascolto profondo degli altri determina le interazioni dinamiche necessarie. Può essere la musica più semplice, anche un bambino o chi non ha mai preso in mano uno strumento può praticarla, ma nelle sue forme più complesse richiede grandissima abilità, preparazione, attitudine, esercizio, ingegno.

Allora, la completa immersione nel suono, nel silenzio, nel tempo, nello spazio, sempre guidata dall’ascolto profondo, fa sì che si riesca a entrare in quello stato di comunicazione, di interplay, di dinamiche dell’interazione tra i musicisti che permettono di creare un evento nuovo, unico e irripetibile. Tutto avviene a livello quasi inconscio, è quasi come una trance, se tu osservi vedrai che tantissimi musicisti suonano ad occhi chiusi. Quando suoni free improvisation, non pensi: “ora qui ci starebbe bene suonare un si bemolle…” no, tutto viene automaticamente, non è come nelle improvvisazioni idiomatiche.

Esiste un libro che è una guida all’ascolto della free improvisation, che potrebbe essere un utile inizio per capire come funzionino certe cose: John Corbett “A Listener’s Guide to Free Improvisation”

Ci racconti la tua esperienza con Don Cherry e che ricordo hai della persona?

Conobbi Don Cherry al festival di Alassio nel 1973. Ero arrivato nel primo pomeriggio al belvedere dove si sarebbe tenuto il concerto serale, e vidi Don Cherry seduto sul prato, con accanto la sua pocket trumpet, che stava suonando un flauto indiano. Ero molto emozionato, a vedere uno dei miei eroi, il trombettista presente nei dischi di Ornette Coleman, e non solo, il trombettista che aveva registrato Mu, uno dei miei album preferiti. Quasi non credevo ai miei occhi.  Mi avvicinai timidamente e mi misi davanti a lui ad ascoltarlo. Dopo pochi minuti stavamo già improvvisando insieme. Alla sera, coadiuvato da validi musicisti, tra cui ricordo un meraviglioso sassofonista tenore, lo  svedese Bernt Rosengren, fece uno dei più bei concerti a cui io abbia mai assistito, un misto di free jazz, musica indiana, musica cinese, una musica veramente globale, insomma, qualcosa che non avevo mai ascoltato prima, fu straordinario.

Don Cherry  era una persona semplice, modesta, molto gentile. Da quella volta ci siamo incontrati in  diverse altre occasioni, non solo in Italia. Quando lui veniva per un concerto, se potevo lo raggiungevo, e ogni volta c’era la possibilità di fare un po’ di musica insieme. Si improvvisava, per lo più in modo modale, su scale pentatoniche, era divertente, e per me sempre emozionante. Grazie a lui ho conosciuto altri musicisti, e ho avuto la grande fortuna di improvvisare con colui che ritengo un vero gigante del sax tenore, Frank Lowe, per me forse il più grande di tutti. Vidi Don Cherry per l’ultima volta a Moers, nel 1990  dove passammo la serata insieme dopo il suo concerto, e ricordo che l’ultima cosa che mi disse quando ci salutammo fu che per avere più chances come musicista avrei dovuto lasciare l’Italia e trasferirmi altrove. Infatti lui aveva intuito che in Italia l’entusiasmo per il jazz d’avanguardia stava scemando, e oggi ne abbiamo le prove. Comunque ricordo Don Cherry con grande affetto e stima, nei confronti di un grandissimo musicista nonché bella persona.

Come stai affrontando questo periodo di chiusura di concerti e possibilità di esibizioni?

La situazione odierna, come tutti sappiamo non è delle più facili. Non voglio entrare nel merito della gestione di questa emergenza, non ne avrei neppure le competenze. Dirò solo che dal primo lockdown in marzo ad oggi ho fatto solamente due concerti, uno in luglio e uno in agosto, quando c’era stata una parziale riapertura. I concerti dal vivo mi mancano molto, perché questo è l’aspetto che preferisco della mia vita di musicista improvvisatore.

Ma visto che non si sa quando potremo ricominciare a fare concerti, si sta cercando di trovare altre situazioni per potere esprimere e condividere la nostra musica.  Attualmente sto sperimentando diverse collaborazioni on line, tra cui la più rilevante è quella con Vanessa Pettendorfer. Insieme stiamo lavorando al  progetto di un duo organo e shakuhachi, e cinque nostri pezzi sono stati inseriti in un album collettivo commemorativo delle vittime di Hiroshima e Nagasaki, uscito proprio in questi giorni. Vanessa è una multistrumentista di grande talento, soprattutto saxofonista, clarinettista e flautista, ma in questo progetto suona due diversi antichi  organi da chiesa ai quali lei può accedere. Con Vanessa abbiamo suonato dal vivo al Clockstop festival di musica improvvisata nel 2018, in quell’occasione lei suonava flauto e clarinetto, ma per questo progetto online abbiamo scelto di concentrarci sul duo organo e shakuhachi, non credo sia mai stato tentato un simile esperimento, c’è molto da sperimentare, siamo solo all’inizio, è ancora tutto in divenire. Vorrei inoltre, appena possibile, continuare a organizzare i concerti a Bogliasco, vicino a Genova, dove dal 2016 sono riuscito in una dozzina di occasioni a portare alcuni dei più importanti  musicisti di free improvisation da diverse parti del mondo.

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