Una vecchia abitudine dei ‘jazz addicts’ è quella di ‘tirare i fili’, cioè di risalire da un album all’altro, da una musica all’altra seguendo le relazioni di collaborazione tra i musicisti che vi danno vita. Non molti giorni fa vi avevo parlato di ‘Totem’ di Ferdinando Romano, ed in questo bell’album avevo già notato la presenza di un vibrafonista dalla voce alquanto personale.
Vedere su Bandcamp un disco in trio di Nazareno Caputo, con lo stesso Romano al basso e Mattia Galeotti alla batteria ha fatto scattare il riflesso condizionato di cui sopra: un attimo e ‘Phylum’ pubblicato presso Aut Records planava attraverso gli spazi della Rete sul mio dispositivo.
Ha aiutato anche il mio vecchio debole per il vibrafono, strumento discreto e spesso defilato, ma che molte volte ha precorso i tempi anticipando svolte decisive nella movimentata storia di questa musica. Forse proprio per queste sue caratteristiche di ‘understatement’, il vibrafono è una voce non molto in evidenza sulla scena italiana, anche se le sue sortite sulla ribalta non passano certo inosservate, e qui penso soprattutto agli ultimi exploit di Pasquale Mirra.
Si suole dire (lo fanno persino gli interessati) che i vibrafonisti si dividano in due grandi ‘chiese’: quelli che hanno dentro la batteria, e quelli che invece nascondono un pianoforte. Mi sbaglierò, ma mi sembra che Caputo appartenga alla seconda confessione.
Già la scelta di una formazione non del tutto usuale come il trio con basso e batteria sembra concepita per lasciare molta ‘aria’ intorno alle lamelle del leader, in modo da consentirgli di sfruttare a fondo le notevoli risorse timbriche del suo strumento. Risorse ulteriormente amplificate dalla notevole personalità del suono di Caputo, caratterizzato da un timbro cangiante e con sfumature acidule.
Altra implicazione della scelta prevalente per sonorità fragili e delicate è quella di un loro inserimento in atmosfere rarefatte e sospese, molto aiutate dalla sottigliezza della batteria di Galeotti. Altrettanto funzionale è la scelta di temi tratteggiati in modo esile, con una semplicità a tratti quasi esitante, ed illuminati da una luce tenue ed incerta.
Ferma la dominante atmosfera meditativa ed introspettiva, è talvolta il basso di Romano a spingere il discorso musicale su di passo più vivace e nervoso, cui Caputo risponde a tono senza mai però esplicitare il potenziale percussivo e dinamico del suo strumento.
Un altro esordio di sottile fascino, qui in un accurato registro riflessivo ed introspettivo che merita una sua nicchia di altrettanto raccolta attenzione, al riparo da tanto banale glamour del main stage. Milton56
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