Ancora una volta gioco di rimessa sull’assist offertomi dall’amico Rob53. ‘Se tutto va bene, siamo rovinati’: direi che più che una previsione, si tratta di una constatazione, che tra l’altro data già da qualche annetto.
Ma l’Impolitico è un pessimista di metodo, che mette mano al machete più che altro per tentare di aprire un varco attraverso il ginepraio di retoriche e mistificazioni e nella speranza di raggiungere radure aperte ed ancora incontaminate, che sotto sotto continua a vagheggiare e ricercare .
Nella geremiade a più voci (Filippo Bianchi, Gerlando Gatto, Rob53) sullo stato della scena jazz italiana mi sembra di cogliere un problema di definizioni, che molto influisce sulle conclusioni e sulle aspettative verso il futuro.
Per esempio, cosa si intende per il ‘pubblico del jazz’? Io eviterei la scorciatoia di identificarlo con chiunque vada a Perugia per celebrare gli ottant’anni di rockstar sul viale del tramonto, o chi va a sentire i due ‘soliti noti’ che saturano i palchi italiani su cui campeggia l’insegna ‘jazz’ (che ahimè non è ‘marchio registrato’, come quello gelosamente custodito dall’apparato istituzionale della musica accademica). Questi sono fan, che coltivano tenacemente ed in via esclusiva i riti ripetitivi di un vero e proprio culto della personalità che esclude altre curiosità e stimoli esterni.
Fortunatamente esiste un altro pubblico, più curioso, meno monomaniaco, che nonostante tutto e chissà come riappare come d’incanto nelle rare e sparse occasioni di ascolto di gruppi che, pur nella loro individualità e ricerca di originalità hanno nel loro DNA la continuità con una storia chiaramente riconoscibile e delineata, quella della musica afroamericana, che anche in Europa ha ormai radici che come minimo risalgono agli anni ’20 del Novecento. Non sono legioni che riempiono gli stadi? E chi se ne importa…. Tanto gli stadi non glieli concederebbero comunque e non sono certo gli ambienti più indicati per la loro esperienza della musica, tutt’altro.
Io invece mi sorprendo ogni volta che questo piccolo popolo disperso si manifesti nonostante la povertà informativa che dovrebbe evocarlo, aggiornarlo ed in ultima istanza mantenerlo coeso. E’ un pubblico che cresce per un passaparola carbonaro, per un volonteroso proselitismo individuale con tutta la fragile casualità ed estemporaneità degli incontri occasionali tra persone. Di qui la sua dimensione limitata, peraltro del tutto paragonabile a quella delle platee della musica accademica, che almeno per quanto riguarda l’opera comprendono anche una non trascurabile fetta di mondanità in cerca di passerelle. E poi parliamo di una musica deliberatamente e sistematicamente epurata dal paesaggio sonoro italiano, vedi da ultimo le recenti deliberazioni dell’ineffabile MIUR (bell’acronimo, niente da invidiare a MinCulPop) sulla marginalizzazione dei corsi di jazz nei piani di studio dei licei musicali. Per tacer di RAI… ma non ci ripetiamo, non è bello infierire su di un cadavere.
E poi affrontiamo senza tante reticenze una questione di fondo che spiega molte cose. Molti anni fa un noto uomo pubblico (ora a riposo tra le vigne) vagheggiava una ‘Italia Paese Normale’. Come tutte le mete proiettate su orizzonti lontani, questa ‘normalità’ rimase un miraggio piuttosto vago ed indistinto. Dubito molto che l’Italia odierna a distanza di tanti anni si sia avvicinata a questo orizzonte un tantino grigio e mediocre allontanandosi da una genetica inclinazione verso il paradosso, l’abnorme, l’eccesso grottesco come dominanti del paesaggio quotidiano. Anzi, la ‘normalità italiana’ sembra esser proprio quest’ultima che si ripropone sistematicamente all’esaurirsi di brevi parentesi diverse: proprio l’Italia Generica Media spietatamente tratteggiata dal più scatenato Alberto Sordi, ed anche quella più inquietante ed amara del Bruno Cortona de ‘Il Sorpasso’ di Dino Risi.
Fuori dai denti: il jazz può essere la ‘musica normale’ di questo ‘Paese Normale’? La mia risposta è no, tondo e secco. Nel suo DNA ci sono elementi che fanno a pugni con la vocazione alla declamazione retorica e teatrale, con il cinismo di Maramaldo, con i cassetti forniti di camicie sempre del colore giusto per l’occasione del momento, con il ‘Franza o Spagna purchè se magna’ ( si badi bene, è credo di elites ben nutrite, non di poveracci abbonati al digiuno), con il ‘non capisco, ma mi adeguo’ (di corsa e se possibile in favore di telecamera).
Nei suoi momenti migliori il jazz italiano è stata una vera e propria ‘eccezione culturale’, con il suo understatement spesso sottilmente ironico, con la noncuranza verso le ribalte affollate e le smaglianti carriere, con lo spirito di improvvisazione creativa che dal palco si riversava su di un’organizzazione mossa ancora in gran parte dalla passione amatoriale. Una musica che cresceva in night club e cantine carbonare e che nonostante ciò in punta di piedi ed inosservata lasciava un’impronta indelebile in tante celebrate manifestazioni della cultura di massa, in prima fila nel cinema, ma anche nella migliore musica leggera, nella pubblicità e persino nella TV. Enrico Rava in un’intervista di parecchi anni fa: “quando io ho iniziato a suonare, dire di voler fare il jazzista e viverne era lo stesso che dire ‘voglio fare il cowboy’ “.
Eppure di cowboy sognatori che spesso hanno voltato le spalle ad un’agiata vita borghese ce ne sono stati parecchi, ed imparando da soli sera per sera sul palco hanno dato una voce ad un’Italia diversa, che sognava anch’essa un futuro che in gran parte è rimasto al di là dell’orizzonte. Un’isola di controcultura, minoritaria quanto si vuole (personalmente non mi ci ritrovo delle maggioranze, sempre rumorose, altro che silenziose…), ma che ha prodotto momenti di bellezza e di significato che hanno resistito al tempo e spesso hanno varcato i confini dell’Italietta sempre provinciale.
Si può obiettare che sto tessendo l’elegia del piccolo circolo, del dilettantismo amatoriale, che sono insensibile all’esigenza dell’allargamento delle platee, alla complessità organizzative che ne derivano, e soprattutto dei relativi costi. E qui arriviamo ad un’ulteriore punto dolente: in barba a MIUR, RAI e compagnia cantante, il jazz è una musica d’arte e come tale difficilmente si autofinanzia. Ha bisogno di un supporto di mecenatismo pubblico e privato, sempre più raro e stentato. Anzi, direi che è rimasto in campo soprattutto quello pubblico, gestito da un ceto politico che ha ben precisi obiettivi non di mera quadratura di conti, ma di creazione di immagine e di consenso. Un detto tedesco recita: “Dessen Brot mann isst. Dessen Lied man singt”. ‘Di chi si mangia il pane, si canta la canzone’. Se poi alla semplice ed onesta pagnotta quotidiana si sostituisce una sontuosa brioche di pasticceria, inutile illudersi che il repertorio non ne risenta, e certamente non nel senso dell’originalità e della creatività (e vorrei dire anche della dignità).
Fuor di metafora, più si esce da ragionevoli e gestibili dimensioni organizzative ed economiche, più il condizionamento sui contenuti diventa determinante, e spesso molto più per l’autocensura e la compiacenza di chi offre i contenuti che per pressioni dirette di chi sponsorizza e patrocina, che si limita ad incombere sornionamente. E parecchie anime belle possono esser pure tentate di cascare in piedi creando retoriche a giustificazione delle proprie equilibristiche giravolte . Senza contare che superate certe dimensioni, inevitabilmente ci si trova a dover trattare con gli apparati burocratici e con le lobbies dell’Italia dei Sordi e dei Cortona, introiettandone logiche e pratiche: inutile illudersi di uscirne indenni, anche sotto il profilo artistico.
Concludo dicendo che solo ritornando ad un rapporto più diretto e continuo con un pubblico motivato, solo tenendo fermo il timone sulla qualità più che sulla quantità, solo agendo su canali di comunicazione e diffusione alternativi e capillari si può dare un futuro di crescita creativa e di solido e durevole seguito di pubblico che la sostenga nel quotidiano, e non con sporadiche e superficiali comparsate in eventi di un giorno, tutti appesi al tornaconto dell’interessato potente di turno. Milton56
P.S.: qualcuno che ne sa più di me mi dice che c’è una categoria di persone strenuamente orientatate verso la Normalità, costi quel che costi: i paranoici….
E concludiamo ritornando all’indimenticabile ‘Sorpasso’ della foto di testa. Al termine di un’odissea picaresca le due Italie di Trintignant e di Gassmann approdano a Castiglioncello. L’irrefrenabile Cortona di Gassman parte subito all’assalto di una radiosa Catherine Spaak. Senza nemmeno accorgersi che si tratta di sua figlia……..
Forse in questo lungo articolo,che pure posso condividere in taluni concetti, un po’ meno barocchismo non farebbe male. O forse scrivi in siffatto modo, per poi godere nel rileggerti.Masturbazioni cerebrali. Mah?
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Andiamo con ordine. La lunghezza: spiacente, non ragiono via Twitter, il formato non mi è congeniale. In secondo luogo, il discorso non poteva esser breve, perchè le radici della istintiva antipatia italiana per il jazz (diffusa anche e soprattutto a livello di persone comuni) ha radici lontane e complesse. Anzi, ho fatto dei balzi logici e temporali che forse avranno creato problemi a diversi lettori. Rileggersi: non lo faccio quasi mai perchè mi prende sempre l’insoddisfazione per il già scritto. Mi rileggo così tanto che nell’articolo ora in linea figurano ancora un paio di bei refusi….. Barocchismo? Si intende scrivere 10 parole al posto di 1, più che suffficiente? Facciamo allora un bell’esperimento: il prolisso articolo ‘pesa’ circa 1.000 parole per 10.000 caratteri circa. Tu condividi ‘solo alcuni concetti’: benissimo , parti avvantaggiato, questo spazio commenti ti offre 4.000 caratteri per esporli in sintesi. Beh? 😉 Milton56
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