Le mani e il cuore di Cyrus Chestnut – My Father’s Hands

CYRUS CHESTNUT – My Father’s Hands (High Note)

Quante volte, buttando un occhio alle biografie dei nostri eroi, ci siamo trovati di fronte eccelsi musicisti che si sono formati e sono cresciuti grazie ad un piano od un organo di Chiesa, spesso come in questo caso una Chiesa Battista, suonati in gioventù con dei familiari più grandi, attivando un imprinting che, statene certi, li seguirà per tutta la vita.

Anche questo disco è frutto di quell’esperienza musicale ed umana: le mani del padre, recentemente scomparso, sono evocate nel titolo del disco dal 59enne Chestnut, giunto al suo 37° (!) episodio da leader, e sono quelle che suonavano l’organo della Mount Calvary Baptist Church nel Maryland di fronte al figlio di cinque o sei anni che s’immerse in quella musica, magari addormentandosi su una panca, tra un profluvio di voci e note amiche.

La spiritualità è sempre stata alla base della proposta di Chestnut, ed è possibile incontrarlo anche oggi, con un po’ di fortuna qualche fedele potrebbe infatti imbattersi in uno dei pianisti più affermati d’America che suona l’organo in qualche Chiesa durante le funzioni domenicali. Con umiltà, ma anche con estrema lucidità, Cyrus ha spiegato il senso della sua missione: “Se posso vedere una persona che dopo una mia performance si sente meglio di quando è arrivato, penso di aver fatto il mio lavoro“.

Per questo nuovo disco in trio Chestnut, sempre più autorevole alla tastiera, si mette a fianco Peter Washington e Lewis Nash, per la serie “ragazzi, qui si fa sul serio”, e parte in quarta con “Nippon Soul Connection”, brano che s’innesta sulla struttura di “Nippon Soul”, da un live di Cannonball nel Sol Levante, per poi macinare originals tra i quali brilla “Working Out Just Fine”, danzante blues cesellato dal trio, e alcuni standards, una breve e sognante “But Beautiful”, una smagliante “There Will Never Be Another You” ed una versione della beatlesiana “Yesterdays”, in veste di ballad resa con estrema, quasi esasperante lentezza.

Tra gli episodi più brillanti di un disco che riesce ad emozionare, tenendosi comunque lontano da toni elegiaci, annoveriamo la vivace “Cubano Chant” del grande e sottovalutato Ray Bryant, uno dei pianisti stilisticamente più vicini al Nostro che ha sempre amato incursioni latine, e qui omaggiato dal trio con un brano diventato punto fermo del repertorio di Dizzy Gillespie. Il disco è stato accolto benissimo oltreoceano, ed ha stazionato per sei settimane al primo posto della Jazz Week Charts, a testimonianza di una popolarità e di un affetto importante da parte dei jazz-fans.

“Credo che la musica debba sempre raccontare una storia – chiosa il pianista nelle liner notes – Questo disco racconta la storia di un figlio riconoscente al padre per tutti gli insegnamenti impartiti”. E allora il viaggio continua, radici nel cielo.

(Courtesy of AudioReview)

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