La seconda giornata del Bergamo Jazz ci ha portato a seguire tre set molto diversi tra loro.
Il programma allestito quest’anno, come ampiamente riferito dal nostro Milton nel precedente dispaccio, ha finito col proporre, in un variegato cartellone, jazz per tutti i gusti: dall’avanguardia al mainstream, da grossi nomi a giovani emergenti, in grandi teatri o in piccoli e raccolti spazi, confermando un legame speciale con la città che ha risposto assai bene sul fronte delle presenze e sfruttando in pieno l’elezione, con Brescia, a Capitale Culturale dell’anno. Nella giornata di venerdi, prima del “main event” al Donizetti abbiamo assistito ad un concerto del gruppo Hack Out!, per la rassegna “Scintille di Jazz” curata con acume da Tino Tracanna.

Questi tre ragazzi, che hanno affinato la reciproca conoscenza durante la pandemia e che ora possono dispiegare le ali, presentano un combo coeso senza basso, con chitarra/sax/batteria, e dimostrano di avere lunghe antenne ben sintonizzate su quanto di più aggiornato si trovi attualmente sia a livello di proposte europee che d’oltreoceano. Mentre fluiscono i brani tratti dal loro ultimo disco, dal divertente titolo “Sad Music For Happy Elevators”, vengono in mente alcuni sviluppi da gruppi con assetti similari, ovviamente in primis il mitico Motian/Lovano/Frisell che ha fatto la storia del jazz negli anni ’90, ma anche senza scomodare mostri sacri diremo che la loro proposta appare fresca e ben congegnata, le scansioni rock non appaiono mai fini a se stesse e mettono in luce un potente sound d’insieme in cui brilla l’ottima vena improvvisativa del sassofonista contralto Manuel Caliumi – un nome già segnato sul mio consunto taccuino – ma anche gli estri degli altri due angoli del trio, il chitarrista Luca Zennaro ed il drummer Riccardo Cocetti. Una tshirt XL con l’inquietante copertina dell’album è stato il mio souvenir di un gruppo che ha già qualche data europea e che a mio avviso vale la pena ascoltare dal vivo.

Parziale delusione invece, per chi scrive, nell’ascolto del duetto Fresu/Marcotulli. Tutti conoscono la perizia tecnica di entrambi, ed il relativo portato poetico, e non è quello il punto. Paolo Fresu, in particolare, aveva trovato una via interessante e di ottimo livello tempo addietro, per esempio con il quintetto stabile (per Blue Note in particolare) e con il Devil Quartet, ma gli anni passano e questo incontro in duo, a partire dalla scelta del repertorio, vagamente creepy (“Non ti scordar di Me”, “Canzone dell’Amore Perduto”, “Terra Mia” , “Laudario”), ha dato vita ad un set jazzisticamente piuttosto debole, d’esangue inconsistenza sul piano ritmico. E’ un incontro tra amici, d’accordo, ma che finisce per celebrare i limiti di un “jazz mediterraneo” più inventato che reale e peraltro invecchiato precocemente, se nel 2023 si vivacchia ancora tra le flautate melodie di un Pino Daniele, di un De Andrè ecc., disposti con quelche trucchetto elettronico, qualche delay suadente ma in sostanza con il tutto che appare piatto come una torta pasqualina, con i due che pescano aneddoti tra i ricordi comuni, ma non riescono a dare consistenza ad un pastiche che tocca comunque corde assai amate dal pubblico. Se diamo un’occhiata a cosa stan facendo il vecchio Rava e mister Fred Hersch nel loro duo tromba-pianoforte (suonavano peraltro a pochi chilometri per il Piacenza Jazz) in cui mettono in gioco praticamente tutto se stessi, cercando soluzioni e sviluppi con ampio rischio, certo, ma anche con possibile grande resa e goduria jazzistica, s’intuirà che qui siamo a molte miglia di distanza. Anche se ho abbandonato il fumo da venticinque anni ho lasciato la poltrona per sostare un po’ sulle scale del teatro, con i fumatori, per l’ultimo pezzetto di concerto…un diluvio di applausi scuoteva il Donizetti alle mie spalle, cinque o sei fumatori facevano spallucce e aspiravano senza pietà, alla fine ho chiesto una Marlboro come un condannato che vuol darsi un tono, sulla soglia del Teatro transitava pure Dudù Kouatè dell’attuale Art Ensemble of Chicago (“eh, per me un po’ pesante…” il suo sorridente pensiero degno della corrente dorotea DC anni 80) e allora comunque dopo l’intervallo son tornato dentro, a riveder le stelle.
Cécile McLorin Salvant! Un inizio complicato, con una spia che non fa il suo lavoro e costringe la vocalist ad allungare il primo brano in scaletta, e poi, risolti i guai tecnici, ecco svilupparsi un concerto ricco, generoso, preparato con cura certosina, verrebbe da dire pure proteico dopo il letto di lattughe precedente.

La sensazione è che Cécile abbia molte cose da dirci e le idee chiare sul come svilluparle. L’organico pieno, un sestetto, consente alla vocalist di proporre un intenso e coerente estratto live da “Melusine”, il suo ultimo album ispirato alla leggenda folklorica omonima, narrato nel 1393 da tal Jean d’Arras in terra di Francia, disco disponibile nel foyer e che, dopo il concerto, andrà letteralmente a ruba. Il repertorio della Salvant appare stilisticamente eterogeneo, come dimostrano i temi proposti a Bergamo, e Cecil sembra sempre incredibilmente a suo agio e del tutto convincente in ogni ambito, supportata in particolare da un ispirato pianista, Glenn Zaleski. Del resto basta dare un’occhiata alla sua biografia per trovarci limpidi spunti che convergono a creare questa sorta di “miracolo” in divenire, con il padre nato ad Haiti, la madre francese, l’infanzia a Miami, e poi gli studi sul barocco europeo ad Aix-en-Provence, il ritorno negli States sotto gli occhi ormai sgranati del mondo intero, con una produzione discografica che si fa intensa e mette in mostra un talento vocale ed espressivo che non ascoltavamo da molti anni. “Intendiamoci, – mi accenna saggiamente il nostro Milton dopo il concerto- non c’è spazio per esibiti virtuosismi, siamo al di là di questo: la Salvant è guidata dal suo talento di interprete, i materiali vengono scelti in base al loro potenziale d’espressione. Nonostante l’ampiezza dell’orizzonte del suo mondo musicale rimane una vocalist inequivocabilmente ‘black’: pur nella ricchezza delle sue sfumature, la sua voce ha una tonalità di fondo brunita e lievemente scura, che ha qualcosa della Holiday dei momenti migliori.” Un certo Wynton Marsalis, che ne è un mentore, anni fa celebrava la Salvant chiosando che “Trovi una cantante come questa una volta ogni una o due generazioni”. L’inizio del concerto, complicato da alcuni problemi tecnici ed una spia che faceva le bizze, ha costretto la Salvant ad allungare a dismisura il brano latin d’apertura, “Dame Iseut”, un delizioso tema dalle fragranze creole con liriche trobadoriche/occitane che nell’album occupa 1’33 e che a Bergamo è stato ripetuto quasi ipnoticamente per una decina di minuti, per poi lanciarsi in altri originals di spessore presi anche da album precedenti (“Fog”, “Ghost Song”) e regalare brividi nella spettacolare esecuzione di “Devil May Care”, con un ottimo chitarrista sugli scudi, Marvin Sewell, mentre ha goduto di alcuni limitati spazi solistici anche la solidissima ritmica del Sol Levante, con il basso di Yasushi Nakamura e la batteria di Keita Ogawa. Il pubblico è andato via via scaldandosi ed alla fine è parso stregato dalla presenza scenica della Salvant che ha deliziato con un sapiente ri-arrangiamento di “Mista” di Dianne Reeves e poi chiuso il concerto tra bis e ovazioni, regalando anche una “Nature Boy” per voce e piano semplicemente memorabile.
E questo è tutto, la terza giornata in terra bergamasca verrà narrata a breve da uno dei nostri. Stay Tuned!
Una Cecile live in ‘Dudù’, uno degli hits più applauditi della serata al Donizetti. Qui con un accompagnatore di gran lusso, Sullivan Fortner…. una coppia combinata in paradiso…..