Vibrafonie italiane

Mi è capitato tempo fa di ascoltare il sassofonista Paolo Recchia, di recente ospite su queste pagine, a proposito di un concerto del suo quartetto ampliato, dire che “Il vibrafono aggiunge spazio alla musica”. Mi sembra una bella ed azzeccata definizione per uno strumento che non compare troppo spesso nelle registrazioni jazz, ma risulta capace, quando presente, di imprimere, con le sue risonanze, un respiro più ampio, appunto uno “spazio” maggiore all’esecuzione di un collettivo. Aggiungo, di mio, un’impressione che ricava dal suono delle lamelle metalliche un senso di mistero, una propensione all’astrazione, peculiare di questo strumento. Dedico quindi questo racconto a due opere che schierano nell’organico il vibrafono e la marimba, variante in legno, e ad una di vibrafono solo, contributo utile anche ad alimentare il dibattito sul jazz italiano o suonato da italiani. Non c’è traccia di jazz mediterraneo da queste parti, ma musiche che potrebbero indifferentemente provenire da qualsiasi parte d’Europa, (o degli Stati Uniti) e che solo casualmente sono prodotte da musicisti veneti, romani o milanesi.

Col primo disco ho una sorta di debito, non perchè provenga da un amico o conoscente, ma perchè lo ascolto da tempo ripromettendomi di scriverne e solo ora riesco a trovarne l’occasione. X(ics) (abeat records) è l’ultima opera del contrabbassista di Mestre Marco Trabucco, leader del quartetto Meraki, attivo in ambito di confine fra il jazz e la musica cameristica, non alieno ad esperienze soliste. In questo caso affida ad un tentetto ( Giulio Scaramella , Andrea Ghezzo, Maddalena Calamai , Marco Trabucco , Emanuele Andreatta, Costanza Pennucci , Luca Colussi , Alessandro Dalla Libera , Luigi Vitale e Federico Motta ) le proprie composizioni, che propongono una sintesi originale e riuscita fra i due mondi. Una delle caratteristiche peculiari del lavoro, una sorta di unicum nel panorama nazionale, è la leggerezza ed ariosità dell’apparato melodico, cui contribuiscono in modo sostanziale le lamelle in legno della marimba e del balafon di Luigi Vitale. “X(ics)” mi rimanda, in tal senso, rimanendo all’ambito orchestrale che gli è proprio, e fatte le debite proporzioni, al recente lavoro dell’Archiptel Orchestra con lo scrittore/musicista Jonathan Coe. Nelle cinque composizioni originali, gli strumenti classici affiancano il quartetto jazzistico nella creazione di climi carichi di slancio dinamico ed intensità ritmico armonica (“One for max” e “Untitiled” ) che condividono ascendenze colte (la presentazione evoca la musica per archi di Schoenberg) ed influenze contemporanee ( io vi ho riscontrato tracce del Pat Metheny “orchestrale”). “Meraki” e la conclusiva “Otranto” che echeggia il tema di “Giant Steps”, sono le composizioni più vicine al linguaggio del jazz, con bella evidenza del pianoforte di Giulio Scaramella, mentre “”Open space” qui sotto ascoltabile, costruisce un’a’ immaginifica melodia grazie all’apporto degli archi, affidando proprio alla marimba il lungo solo che ne attraversa lo svolgimento. Una prova coraggiosa e riuscita che non sacrifica la comunicativa alla complessità compositiva da parte di un giovane musicista da tenere d’occhio.

Conil vibrafono ha molto a che fare anche il nuovo disco, il quarto, del quartetto Roots Magic (Alberto Popolla, Enrico De Fabritiis, Gianfranco Tedeschi e Fabrizio Spera ) “Long Old Road” (Clean feed), in questa occasione diventato un sestetto grazie all’innesto del vibrafono di Francesco Lo Cascio e del sax soprano di Eugenio Colombo. I suoi rintocchi segnano l’iniziale “When the elephant walks” firmata da Kahil el Zabar, una dinamica carrellata degli stili adottati dalla band: essenza blues, dialoghi articolati tra i fiati, ritmo sempre in primo piano, sia negli episodi maggiormente strutturati come questo, che negli spazi riservati alla astrazione free, e spazi solisti equilibrati nello schema generale, con particolare ricerca per le timbriche originali come quelle del flauto che chiude questo brano. Lungo questa rotta si sviluppa un percorso in alternanza fra tensione e quiete, furore e lirismo, con brani originali mescolati a riletture di blues arcaici in un flusso marchiato indelebilmente da una attitudine sonora che riflette condivisione di valori ed idee della cultura afroamericana. Il bruciante free di “Suma” è dedicato alla scrittrice Toni Morrison, “Blue lines” – un’ esplorazione per percussioni che trova il suo apice nel duetto fra il flauto ed il vibrafono prima della convusla esplosione dei fiati – a Muhal Richard Abrams, “Long old road“, è tratta dal repertorio di Bessie Smith ed è resa con un andamento processionario che ad un tratto si congela in una stasi meditativa popolata da percussioni, flauto e banjo. L”incalzante ritmo ed i fiati imbizzarriti di “Amber” accompagnano una dedica al violoncelista Abdul Wadud, mentre “Bullying well” con la sua quieta atmosfera rurale, spezzata dal break del sax, è tratta dal repertoroo della cantante blues Rosa Lee Hill. L’organico ampliato conferma e rinforza l’efficacia della collaudata alchimia del collettivo, potente nei temi declamati all’unisono dai fiati e nella struttura ritmica, senza trascurare elasticità di passo: si ascolti l’andamento sciolto di “Run As Slow As You Can” o il tempo in levare di “Drinking Coffee Elesewhere”. In entrambe, come in buona parte del disco il vibrafono lascia il segno, sia con assoli coinvolgenti (vedi il finale afro del primo brano) che in sede di sostegno e rifinitura ritmica. Si chiude con il finale corale e rituale di” Things Have Got To Change” del trombettista Cal Massey, e non potrebbe esserci augurio migliore per i nostri tempi.

Concludo con un’opera , esempio abbastanza raro, nella quale lo strumento a lamelle è protagonista unico. Ne è autore Sergio Armaroli vibrafonista, percussionista, compositore attivo in ambito jazz e classico con propensione alla sperimentazione, leader dell’Axis Quartet e molto attivo anche in campo teatrale, letterario e figurativo.

“Vibraphone solo in four part(s)”. (Dodicilune) contiene un solo per vibrafono in quattro parti che propone un racconto racchiuso nell’unità temporale di una intera giornata, tra mattino e pomeriggio. Una conversazione con se stesso, nella quale le doti tecniche di Armaroli sono poste al servizio di uno svolgimento che alterna parti materiche ed oniriche, dinamismo e stasi, a sottolineare le diverse parti, fisiche e mentali della giornata, fino alla progressiva cessazione rappresentata dall’affievolirsi dei rintocchi.

«Da dove sono alloggiato, con alcuni amici che conoscono il mio segreto, mi avvicino allo studio di registrazione e preparo il mio strumento con i piedi. Camminando la musica: euritmia del possibile. Improvvisando da un canovaccio della vita. Solo ne approfitto per “parlare con me”. Non ho un piano definito e mi permetto di perdermi in una qualsiasi nota possibile per poi ri-trovarmi dentro un campo armonico cangiante, in movimento: probabile, immaginario. Costruisco frasi in dialogo con me stesso: Altro, ma sempre stando dentro lo strumento che mi accompagna. Così mi trovo a raccontare “in parti”: alla ricerca», spiega il musicista e compositore che considera il jazz come «un’attitudine propriamente sperimentale che ha assoluta necessità di essere raccontata»

2 Comments

  1. Spezzo una lancia a favore di Roots Magic, un ottimo gruppo che poi, con l’innesto di quel maestro misconosciuto che è Eugenio Colombo raggiunge vette poco abituali al jazz italiano. Rimane il solito dilemma: perché le proposte più innovative e intelligenti non trovano spazio nei principali festival italiani? La risposta la conosco…..

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  2. Il vibrafono, strumento che spesso è stato di autentici precursori…. Walt Dickerson, Bobby Hutcherson etc. Ma allo stesso tempo uno strumento ‘difficile’: costoso, ingombrante, e soprattutto bisognoso di attento inserimento in una formazione accuratamente calibrata per consentirgli un adeguato spazio sonoro. Forse è questo il motivo per cui lo vediamo raramente sui nostri palchi, affollati spesso da effimere formazioni d’occasione. Alle nostre latitudini citerei anche Pasquale Mirra, che ha avuto sì una certa sua visibilità, ma dovuta soprattutto a collaborazioni in band internazionali di passaggio, prestigiose sì, ma che mi sembra abbiano in qualche modo rinviato sine die la creazione di un suo gruppo nel quale sviluppare compiutamente la sua musica. Milton56

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