DISCHI D’AUTUNNO – 2^ PARTE

Da qualche settimana vi sono debitore della prosecuzione di quel breve panorama discografico avviato. Ho messo un poco di tempo in mezzo nella speranza che emergesse qualche nuovo titolo da sottoporvi: l’attesa ha portato qualcosa di nuovo (pochino), e nel frattempo i colleghi mi hanno talvolta ‘soffiato’ dei piccoli scoop, tra l’altro con recensioni di taglio più completo di queste. Ricordo che il criterio di attualità delle uscite è puramente personale, legato all’avvistamento di nuovi dischi dal mio piccolo osservatorio, devo dire sostenuto in modo alquanto deludente dalle varie Intelligenze Artificiali delle piattaforme che seguo (en passant, non tutti i mali vengono per nuocere, con tutto quel che si dice di queste AI ancora al debutto…..). Ulteriore avvertenza: questi album sono facilmente reperibili in ‘forma liquida’ sulle maggiori piattaforme di streaming ed anche di vendita on line (es. Bandcamp). Tutt’altro discorso per i supporti fisici, ahimè…. : posso solo consigliare di tener d’occhio negozi online internazionali, armandosi di non poca pazienza.

Bella copertina della raffinata Edition Records…

The Bad Plus – Bad PlusEdition Records

I proteiformi Bad Plus sono ormai giunti alla versione 3.0: questa volta si tratta di una mutazione genetica  da trio pianistico in quartetto ‘pianoless’. Recentemente ho avuto modo di ascoltarli dal vivo e devo dire che la prova del palco ha confermato la persistente identità del gruppo e la sua indomabile vitalità. Il DNA della band va ricercato nell’inossidabile duo Reid Anderson al basso e Dave King alla batteria (del resto Ethan Iverson, che molti ritenevano il centro dei primi  Bad, aveva già fatto intendere che il baricentro del gruppo gravitava nelle file della ‘ritmica’). I nuovi Bad Plus sono sempre forti di un bel book di composizioni, omogeneo nelle sue atmosfere e con sound sempre perfettamente riconoscibile in barba ai massicci rivolgimenti d’organico.

‘Motivation II’

Sul palco domina il grande dinamismo del duo King-Anderson, un poco più smussato nell’album, dove la frontline di Chris Speed e Ben Monder ha più spazio con il suo controcanto lirico e sfumato specie con la bella voce malinconica e assorta del sax tenore di Speed, mentre la chitarra di Monder ha tonalità più acide e disegna ampii sfondi che molto giovano al respiro dell’intero gruppo. L’ implacabile macchina ritmica che è cuore e cifra distintiva della band conta sul basso asciutto e nitidamente articolato di Anderson, mentre King genera un drumming travolgente ed avvolgente, ma allo stesso di geometrica complessità, dal vivo assolutamente irresistibile. E’ un ascolto che raccomanderei caldamente ad un pubblico giovane che volesse accostarsi ad un jazz contemporaneo ed insieme curioso di molti mondi musicali, capace di sedurre con la sua intensa vitalità senza banali concessioni a mode di un giorno

Anche qui copertina azzeccata: c’è molto del sottile mistero che aleggia nella musica

Ferdinando Romano – Invisible PaintersJam/Unjam (distibuz.Universal)

Anche qui un gruppo formato e diretto dalle retrovie della ‘ritmica’ (occhio alle virgolette..). Abbiamo una bella conferma del fatto che dalle nostre parti dallo sgabello del basso sempre più si acquisisce l’occhio del leader (cfr. Michisanti, Scandroglio). Romano (già notato per il suo bel ‘Totem’, ve ne avevamo parlato qui ) rivela questo talento mettendo in campo una nuova formazione densa di talenti giovani: Federico Calcagno al clarinetto basso, Elias Stemeseder al piano ed elettroniche (già notato a fianco di Jim Black) ed alla batteria l’Evita Polidoro ora arruolata da Rava nei suoi ‘Fearless Five’. Siamo dalle parti di un’innovazione meditata e discreta, lontana da astrattezze programmatiche.

‘Origami playground’, un bel saggio dei Pittori Invisibili…

L’album rivela una concezione omogenea, con atmosfere e sonorità che si alternano in una sorta di fluide dissolvenze incrociate. Calcagno si distacca dai prediletti lidi dolphiani per sfoggiare tono e fraseggio morbidi, al servizio di un misurato lirismo che conferma la sua bella vena di strumentista ed improvvisatore. Stemeseder, diviso tra piano acustico e strumenti elettronici, fornisce il nucleo centrale di un suono di gruppo notturno e ricco di sfumature, con venature di guizzante inquietudine. La batteria di Polidoro assicura un tappeto ritmico morbido, leggero e sottile, onnipresente con discrezione: bacchette così sono necessarie come l’aria al nostro jazz, e per fortuna si notano sempre più spesso nelle nuove generazioni.

Romano è leader discreto, votato con successo alla creazione di un suono di gruppo omogeneo e ben caratterizzato, e capace di modellare un mondo espressivo che spazia tra registri diversi. Le sue sortite da strumentista rivelano un basso attentamente controllato e con una articolazione nitida. Anche stavolta, come già in ‘Totem’, va ascritto a suo merito il talento di ‘far comunità’ con un gruppo di giovani musicisti che in sedi diverse hanno già dimostrato personalità ed originalità: sarebbe ora che il nostro più ampio circuito concertistico (ci sono poche eccezioni) se ne accorgesse, consentendo a formazioni così ricche di potenziale e di idee di affinarsi e crescere in un rapporto più diretto e stimolante con il pubblico. ‘Spes ultima dea….’  

Orrin Evans – ‘The Red Door’Smoke Sessions

Evans è da tempo fuoriuscito dall’esperienza dei The Bad Plus 2.0, portandosi dietro ‘The Red Door’, bel contributo di Orrin al loro book e che ha fortemente caratterizzato stile e mood del trio. Una breve partecipazione, forse effimera sin dal primo momento, ma che ha portato qualcosa in dote al nostro solido pianista. Ad esempio il gusto della varietà, ben riflesso in questo album composito e diversificato. Non sono più i tempi in cui Orrin poteva metter insieme tutti in una volta organici estesi che lambivano la big band (la sua Captain è un ricordo del passato, ma sembra lontana anche quella di ‘The Intangible Between’ del 2019, ahimè un’altra era): ma non per questo rinunzia ad una tavolozza dai molti colori, inserendo in ‘The Red Door’ un bel numero di ospiti esterni che rendono il suo quartetto di base (Nicholas Payton, tromba, Gary Thomas, sax tenore e flauto, Richard Hurst, basso e Marvin ‘Smitthy’ Smith, batteria) un veicolo a geometria variabile, estrosamente variabile.

A Geri questa ‘Feed the Fire’ sarebbe piaciuta molto….. occhio all’improvvisazione introduttiva da cui scaturisce il tema. Come una fiamma dalla brace, appunto….

Anche il materiale è altrettanto diversificato: originals, ma anche standards e brani d’autore, un ‘I have the feeling I’ve been here before’ del sofisticato Roger Kellaway, ed il fiammeggiante ‘Feed the Fire’ di Geri Allen, che continua ad esser presente nella memoria di molti musicisti (meno in quella di altri). Vistosa è la presenza della vocalist Jazzmeia Horn, che riesce a spiccare in un album affollato e caleidoscopico con un ‘Big Small’ estrosamente espressionistico.

Abbiamo seguito negli anni questo solidissimo e quantomai versatile pianista (quasi ignoto anch’egli alle nostre ‘grandi scene’) e mai ci ha deluso per intensità e profondità dell’ispirazione: ma in quest’occasione mi sembra aver sfoderato una marcia in più, rivelando una notevole capacità di rimanere in equilibrio tra momenti di densa e profonda improvvisazione ed un vivace repertorio di temi estrosi e coinvolgenti, che rapidamente fanno forte presa sulle più diverse fasce di ascoltatori. Mi sbilancio: per me siamo di fronte ad uno degli album più ingegnosi ed insieme più brillantemente godibili dell’anno, fossi un conduttore radiofonico vi attingerei a piene mani. Ma fortunatamente non ho microfoni a portata di mano….. Milton56

Ed eccola la contagiosa ‘Porta Rossa’, proprio mentre si schiude in studio……Orrin ci parla dell’album

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