Ci ha lasciato pochi giorni fa Bob Wilber, del tutto ignorato dai “media” nostrani come un Carneade qualsiasi, così ci ha lasciato il buon Bob, nel sostanziale disinteresse dell’ambiente jazzistico, qui freneticamente occupato in festivals nelle località più amene dello stivale, tra pizze, cantautori, piadine, infradito e interviste di fresu che presenta commosso zuppe di pomodoro con carne di pecora e ornelle vanoni greatest hits.
Se ne va a novantun anni, il newyorkese Bob che bazzicava Giganti, e senza dare nell’occhio, in quel di Chipping Campden, minuscola cittadina nel Gloucestershire, Inghilterra del sud, figuriamoci, del resto quel che aveva da dire lo aveva detto benissimo, lasciandoci una discreta messe d’incisioni da cui attingere e in cui si conferma superbo sassofonista soprano oltre che clarinettista, erede diretto di Sidney Bechet, di cui era pupillo e brillante discepolo. Derivativo, forse, passatista secondo alcuni e comunque demodè, oppure innocuo, a un certo punto curiosamente troppo moderno per i “trad” duri e puri e troppo classico per i progressisti, sostanzialmente derubricato da anni dalle ribalte più luminose, e buonanotte ai suonatori.
La Biografia “Music was not enough” uscita a fine anni ’80.
Ripassando anche solo la sua striminzita pagina di Wikipedia (non tradotta in italiano) ci si accorge però di come il contributo di Wilber al Jazz sia tutt’altro che irrilevante e dispensato su un cospicuo numero di lustri, segnati da numerosi successi e da un seguito tutt’altro che banale, così come appare evidente uno dei suoi meriti maggiori, ovvero quello di aver contribuito a mantenere viva l’opera di grandi musicisti del Jazz classico (King Oliver, Louis Armstrong, Jelly Roll Morton, Benny Goodman) attraverso rispettose riletture, sempre eleganti e cariche di gustoso humour, anche quando utilizzava il contralto, dimostrando connessioni evidenti con Johnny Hodges.
A conti fatti non si può che parlare di carriera straordinaria, nata sotto l’egida di un Mito del Jazz, il succitato Sidney Bechet che conobbe grazie agli uffici di Mezz Mezzrow e che nel 1948 gli diede lezioni destinate a durare una vita intera, proseguita suonando e registrando con iconici jazzmen come Bobby Hackett, Benny Goodman, Jack Teagarden, Eddie Condon, fondando negli anni ’60, con il bassista Bob Haggart e il trombettista Yank Lawson la World’s Greatest Jazz Band, e proseguendo con il duraturo sodalizio con il clarinettista Kenny Davern ed altri progetti che han coinvolto tra gli altri Dick Hyman, Ralph Sutton, Bucky Pizzarelli e molti altri, in un’attività incessante fino agli anni 2000 in virtù anche del consolidamento di consensi ottenuti oltreoceano dal filone “neo swing”, oltre che dall’appoggio ricevuto da Wynton Marsalis, che ne ha grande considerazione, e dalla “sua” JALCO.
Dotato di uno spiccato senso per la melodia, Wilber ha condotto con mano sicura big band e piccoli combo, rimanendo sempre assai attivo nell’ambito educativo e dell’insegnamento, oltre che Direttore Musicale dello Smithsonian Jazz Repertory Ensemble, ma soprattutto ha scritto ed arrangiato per tutta la vita, dimostrando una rimarchevole vena compositiva, lavorando anche in ambito cinematografico, citiamo la ri-creazione Ellingtoniana elaborata per il celebre “Cotton Club” (1984) di Francis Ford Coppola, e per la colonna sonora, con Lino Patruno, di “Bix – Un’ipotesi leggendaria” (1991) del nostro Pupi Avati, dedicato a Bix Beiderbeck.
Grazie di tutto, Bob, che ti sia lieve la terra.